Tommaso Di Francesco da il manifesto
METTI UNA SERA DI 31 ANNI FA…
Il 22 novembre del 1975, durante una protesta per l’Angola, venne ucciso in un agguato dalla polizia il giovane di Lotta Continua Piero Bruno. Trentuno anni dopo un libro-inchiesta ne ripercorre la storia
di Tommaso Di Francesco
Metti che un giovane di 21 anni, Massimiliano Coccia, decida di riaprire i quaderni rinserrati della memoria e di scrivere un libro su un giovane comunista di 18 anni di trentuno anni fa, «Gli occhi di Piero» (Edizione Alegre, pp.100, 9 euro), la storia di Piero Bruno, un giovane studente di Lotta Continua ucciso dalla polizia a Roma il 22 novembre di 31 anni fa. Riaprendo l’attenzione sul «1975», un anno di svolta sospeso tra due sensibilità. Metti che tutto questo ti crei uno spaesamento profondo sul tempo e la realtà, sul senso dell’agire, la sua residua possibilità nell’epoca in cui conosciamo tutto, in anticipo, ma non sappiamo più se vogliamo prendere in mano il nostro destino e con esso quello del mondo.
Metti che tutto congiuri a farti ritornare alle sere fredde di un novembre di tanti anni fa, dentro una Roma che appariva nemica, che aveva visto uccidere solo pochi mesi prima Pier Paolo Pasolini all’idroscalo di Ostia. Una morte e le tante altre del ’75 che, insieme alle stragi di stato e fasciste dal 1969 al 1974, mandavano un segnale: quello di un muro eretto contro ogni cambiamento. Ma la realtà cambiava, e noi c’eravamo dentro: nelle lotte per la casa, nelle autoriduzioni, negli scioperi di operai, nelle autogestioni a scuola, negli ambulatori popolari, nei collettivi per le 35 ore, nei consigli di fabbrica e di zona. Altro che «solo violenza» come scrive Pierluigi Battista.
Quella sera fredda di novembre quando una manifestazione di migliaia di persone era partita da Santa Maria Maggiore. Per l’Angola, la sua liberazione contro Zaire e Sudafrica che impedivano con le armi e i mercenari il già difficile processo di decolonizzazione. Adesso il mondo sta su Internet, allora l’avevamo in tasca e l’Angola era vicino alla Garbatella. Da lì veniva Piero Bruno studente dell’Armellini che quella sera sfilava con gli altri. E a via Labicana un gruppo si stacca verso via Muratori per un’azione dimostrativa più esplicita contro l’ambasciata dello Zaire. Con le molotov. Un’azione attesa al varco quasi per un agguato dalla polizia nascosta nell’ombra, così nascosta che chi aveva preparato la protesta non era stato capace di vederla. E’ un’esecuzione a freddo, i ragazzi fuggono e vengono colpiti alle spalle in tre, a quel punto vengono lanciate le molotov ma solo per coprire la fuga e sfiorano un gippone di carabinieri, Piero Bruno rimane a terra, lo sciame dei colpi lo raggiunge dietro il corpo all’altezza delle vertebre. «Non muovo più le gambe» urla a una donna che si è affacciata a una finestra, viene raggiunto dall’agente che lo ha ferito, Romano Tammaro, mentre è a terra e che impreca contro di lui, lo sfotte e gli punta la pistola in faccia e fa fuoco mentre Piero Bruno si dispera e implora che no, e l’arma fa clic, scarica… Chi prova a soccorrerlo viene preso a pistolettate, la polizia spara ferendo un altro giovane che vuole portarlo via e soccorrerlo. Piero Bruno alla fine morirà in ospedale il giorno dopo.
Metti che dal libro-inchiesta venga fuori che è un delitto per il quale non ha pagato nessuno, anzi che diventa una specie di «modello» per occultare la verità. A partire dalla scena dell’omicidio che viene ripulita immediatamente dopo il tiro al bersaglio con i proiettili che aumentano o diminuiscono a seconda delle versioni e al corpo di Piero che viene sistemato in una improbabile postura d’attacco; a seguire con le cosiddette indagini che avvengono senza che nessuno sequestri le pistole che hanno sparato, senza che nessuno interroghi il comandante e il responsabile delle operazioni di polizia quel giorno, o faccia perizie sugli automezzi per la magistratura «incendiati» e in realtà solo scalfiti. Per finire al «non luogo a procedere» della sentenza finale, fino all’archiviazione definitiva un anno dopo, il cui testo tombale, come tutte le epigrafi di quella che fu la Legge Reale, recita: «Se per gli interessi superiori dello stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti ad una reazione proporzionale all’offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i fondamentali principi di diritto…». Noi con i suoi compagni più vicini – come Franco “Leone” Di Carlo – pensammo che a diciotto anni non hai visto ancora nulla del mondo e chi t’ammazza è un figlio di mignotta.
Insomma, un delitto in piena regola per il quale non c’è mai stato un processo. Un processo che la madre chiede ancora: «Quando lo faranno, quando saremo tutti morti?», la madre che avanza perfino l’ipotesi che qualcuno, nel gruppo di Piero avesse tradito, visto che i ragazzi erano attesi per un agguato, la madre che non ha perdonato nessuno, soprattutto gli agenti che spararono: «Come può una persona armata sparare contro una disarmata per difendersi, come può ucciderlo, stroncare una vita…?». La madre… perché nessuno chiede mai alle madri.
Metti che di quel giorno crudele non abbia perso la memoria un uomo delle stesse file di Piero Bruno. «Su quella salita ce l’ho mandato io. Doveva fare una cosa più che innocua: buttare delle bottiglie accese a benzina contro un cancello d’ambasciata. Era stata sguarnita apposta, era una trappola e non ce ne siamo accorti, né noi né la staffetta mandata a controllare. A morire ce l’ho mandato io…». Sono le parole di Erri De Luca, allora responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua, che da lì a poco si sarebbe sciolta e forse anche quella morte pesò sulla decisione. Ma noi a Roma eravamo stati diversi? Altro che mondo globale, vivevamo in Vietnam, portavamo pane ai palestinesi massacrati ad Amman dal re di Giordania, dormivamo al Politecnico di Atene in rivolta contro il regime dei colonnelli della Nato. Le ambasciate dei tiranni e dei criminali del mondo erano state più volte a portata di mano. Anche noi eravamo andati all’assalto. Fino all’uccisione di Piero Bruno. La partecipazione alla guerra lontana era, qui in Occidente, una scorciatoia vicina, non si tratta di «tradimenti». E quelle rivolte armate che pure chiedevano soccorso, distrazione del nemico e nuovi fronti, alla prova del potere e del cambiamento si sarebbero mostrate sfiancate nei contenuti, dissanguate dalle guerre imposte dai padroni della terra.
Metti che cresceva e cresce una rabbia pulita. Ancora e nonostante tutto. Allora il sentimento s’accompagnava ad una inespressa felicità «a cielo aperto», di chi è consapevole di volere cambiare la faccia del mondo. Il «comunismo in cammino» ha scritto Franco Fortini. Per questo quella tragica sera di 31 anni fa è «una storia di strada» che ci riguarda ancora oggi dopo Genova e in questi giorni di fuochi fatui. Per questo – ha ragione Erri De Luca – Piero Bruno «ha sempre diciotto anni».