Tra narrativa e lotta operaia: raccontarsi per smettere di farsi raccontare. Una conversazione con l’autrice Simona Baldanzi – Alberto Corti su Global Project
Durante il festival di letteratura working class svoltosi alla ex Gkn abbiamo avuto modo di dialogare con la scrittrice Simona Baldanzi. Simona, dopo essersi occupata per molti anni di salute e sicurezza sul lavoro come sindacalista, adesso è impegnata al patronato Inca CGIL. Partendo dalla necessità di creare nuovi immaginari alternativi, abbiamo parlato di oppressione di genere, ambiente e sicurezza sul lavoro, anche ripercorrendo alcuni snodi fondamentali del suo ultimo romanzo Se tornano le rane, uscito per Alegre nel 2022.
Alberto Corti: La prima riflessione verte attorno alla questione dell’immaginario e dell’importanza di creare una narrazione diversa rispetto a quella più generalista, che vede gli operai e le loro lotte tenute al margine. Se ne sta parlando molto anche in questi giorni di festival qui alla GKN, in cui si respira una forte sinergia tra fabbrica e cultura, tra narrativa e lotta operaia. Dopo la letteratura operaia degli anni ’70, quella di oggi rappresenta una novità nel panorama italiano. Anche partendo dal tuo romanzo d’esordio Figlia di una vestaglia blu, come hai vissuto dall’interno lo sviluppo degli ultimi anni?
Simona Baldanzi: Io sono cresciuta bambina con un immaginario ridotto e distorto. Ridotto perché verso la fine degli anni ’80 c’era un riflusso delle tute blu, se ne parlava come di un qualcosa che stava scomparendo. Come poi abbiamo visto gli operai non sono scomparsi ma anzi sono aumentati, non solo nelle fabbriche, ma negli uffici, nelle case e nei ritmi incessanti della vita. Io vedevo un mondo femminile operaio che non era rammentato, nemmeno nel periodo glorioso delle lotte operaie. Si pensava che gli operai fossero solo maschi quando in realtà c’era un mondo femminile molto forte, soprattutto nei settori più sminuenti come era il settore tessile e come è tuttora nell’ambito della ristorazione, del mondo di cura, e in generale nei lavori meno pagati. Per quanto riguarda il mio primo romanzo, il termine “vestaglie blu” è una mia invenzione. Le operaie che lavoravano al Mugello venivano chiamate fratine perché Fraini era il padrone della fabbrica di jeans e tutti le nominavano con questo nomignolo che per me era molto dispregiativo, perché era come se fossero tutte figlie sue, tutte sotto il suo controllo. Ma andando oltre la veste blu da lavoro erano donne con ognuna la loro storia. Dall’anno di esordio nel 2006 alla ripubblicazione per Alegre nel 2019 c’è stato un cambiamento. Lì ero presa come una sorta di panda. Venivo magari invitata a festival letterari assieme ad altri autori che scrivevano di lavoro ma volevano essere considerati più scrittori e non scrittori del lavoro o venente dal lavoro. E invece piano piano questa comunità di scrittori working class si è allargata grazie anche al lavoro di Alberto Prunetti e alla casa editrice Alegre che ci ha riuniti, ha tessuto un po’ dei fili di chi aveva provato a rompere alcuni immaginari magari non riuscendoci del tutto.
Alberto: Anche la tua ultima opera Se tornano le rane rientra nel filone della narrativa working class. Quest’opera è un romanzo al femminile in cui la protagonista Giorgia, a seguito del suo licenziamento, vive una riscoperta della sua coscienza politica. Con un passato da militante, successivamente abbandona il suo attivismo sopraffatta dal lavoro e dagli impegni familiari. Ma poi qualcosa la riporta a ripensare il suo rapporto con la politica. Che cos’è effettivamente a smuoverla?
Simona: Intanto anche lì c’è uno scontro/incontro tra immaginari. Giorgia è legata a una militanza in anni difficili, quando le fabbriche chiudono e nasce un nuovo polo lavorativo che è quello dell’Outlet di Barberino di Mugello. Qui lavorano un migliaio di persone delle quali sappiamo pochissimo perché questo tipo di lavoro non viene raccontato. Sono generalmente commesse, ma dentro l’Outlet ci sono 32 tipologie di contratto diverse, per cui pur lavorando nello stesso posto non sono uguali. Lei ha osteggiato questo posto proprio per la fragilità dei contratti e della vita lavorativa. La protagonista lotta anche con un immaginario del passato fatto di lotte, di un partito forte in quel territorio; viene da un passato di amministrazione di sinistra, dalla gloria del PCI, dalle case del popolo fondate dal dopolavoro delle fabbriche, insomma, da tutta una realtà che non c’è più. E questo passato a volte pesa anche nell’azione politica perché sembra sempre una zavorra, un qualcosa che chi lo ha vissuto dice «non torneranno mai più quei tempi, cosa lottiamo a fare». Quindi nel libro viene fuori questa nostalgia, anche da parte del mondo che ruota attorno alla protagonista. Però la nostalgia viene rotta da un altro immaginario, completamente sganciato da tutto. E chi può essere sganciato da tutto? Da chi quel passato non lo ha mai vissuto e non ha vissuto neanche i tempi di mezzo, cioè la crisi di quel modello: i bambini, che sono quegli elementi di rottura di un immaginario.
Alberto: Infatti proprio la domanda successiva sarebbe stata proprio sulla figlia della protagonista. La storia del territorio viene vissuta attraverso sia i suoi occhi che quelli delle generazioni precedenti, con Camilla che si impegna a ricostruire l’albero genealogico della famiglia. È quindi presente nel romanzo una concezione del territorio e dei mutamenti di questi anni. Anche riprendendo la questione del centro commerciale presente a Barberino, nel racconto è presente questa dicotomia tra l’Outlet, un paese finto costruito su logiche di mercato e formato interamente da negozi, e il resto del territorio, forte delle proprie tradizioni e della propria storia. Ripensare il territorio mi è parso uno degli snodi fondamentali su cui hai voluto porre l’attenzione.
Simona: Sì perché ci sono gli snodi della famiglia e delle generazioni in dialogo, con ognuna il proprio vissuto. Gli alberi genealogici li fanno solo i borghesi, i ricchi, e spesso noi che veniamo dalle classi più disagiate quasi ce ne vergogniamo. Invece andare a scavare, anche nella distorsione della propria famiglia – perché tutto non è rosa e fiori anche nelle famiglie working class – e ritirare fuori le storie vedendone i punti di vista, dialogano gli immaginari diversi e dialogano i cambiamenti nel territorio. Perché l‘altra parte di provenienza, oltre la famiglia e il lavoro, è quella di avere a che fare con una terra. E su questo spesso si va a comparti stagni: o si parla di romanzi familiari o di romanzi operai o di romanzi territoriali. Ma si viene anche da quella terra e da quella terra ci portiamo anche le storie. E anche il territorio subisce le stesse ferite. Il Mugello ha avuto una storia sia di gloria sia di passaggio perché è una terra, giocoforza, che intreccia tutte le strade d’Italia, se si blocca l’Autostrada del Sole sappiamo cosa succede. E allo stesso tempo di cambiamenti epocali direi in termini di relazioni e in termini di distretti industriali. Spesso quando andavo in giro per l’Italia a parlare anche di quello che scrivevo il Mugello veniva sempre visto come un territorio marginale, anche se in realtà non è così. E io guardandolo e raccontandolo non mi annoio mai perché continuamente si vedono cose che cambiano e cose che succedono. Allo stesso tempo il Mugello spesso è diventato una sorta di roso in cima ai filari, cioè quella cosa che ti dà l’allarme di quello che poi può succedere nel resto del paese. Come dire se accettano una certa cosa qui allora dopo possono farlo dappertutto. E a volte, ecco, raccontare i territori ti rimanda questi segnali che possono essere indizi di cosa succederà nel futuro, che però spesso non vengono letti.
Alberto: Una descrizione che mi ha particolarmente colpito è quando definisci le figure femminili più anziane, “donne montagna”. Questo termine ha una duplice accezione: da una parte sono delle persone che da sempre hanno abitato il territorio, dall’altra sono state vittime di un sistema patriarcale che ha relegato le loro vite ai margini e le ha costrette al silenzio. E, nonostante ciò, sono comunque determinate a educare le generazioni successive a nuovi valori. Porre l’attenzione sugli sforzi delle generazioni passate è stato un modo di rendere loro giustizia?
Simona: Queste donne sono state sempre ferme lì, vengono da quella terra e non si sono mai mosse, sono parte del paesaggio. E non del paesaggio inteso come cartolina, ma nel senso che lo costruivano e lo tenevano addosso e, anzi, gli serviva per restare ferme lì. Anche mia nonna una volta provò ad andare oltre la montagna, e quando le chiesero cosa ci fosse lei rispose «altre montagne». E in questa loro sensazione di immobilità però fare come le piante. Anche le piante stanno ferme; eppure buttando le radici o lanciando i semi altrove si possono muovere. Paradossalmente anche se stanno ferme si espandono in altri modi: con i figli, con le storie, con quello che poi hanno portato. Ma la montagna è anche una che ti protegge dalla luce del sole, che ti fa ombra. E loro, proprio come le montagne, hanno fatto ombra a delle sofferenze che a modo loro hanno saputo trasformare. Quando si parla di violenza di genere giustamente ora si denuncia, si tirano fuori queste storie. Loro lo hanno fatto non potendo ancora denunciare perché non era nella loro cultura e nella loro accessibilità. Però lo hanno fatto attraverso il non ripetere quella violenza, non mostrarla totalmente per non far diventare i figli a loro volta dei violenti, in un lavoro molto sotterraneo che è come quello della montagna. E quindi anche l’evoluzione delle lotte femministe lo dobbiamo a certe donne che di generazione in generazione sembra non abbiano fatto niente, che non si siano ribellate, e di cui invece ci portiamo dietro le loro esperienze. Le voci di adesso che arrivano con rabbia le dobbiamo anche a questo processo che si muove lento, proprio come un fiume sotterraneo che piano piano porta l’acqua e arriva qualcosa che germoglia. E lo dobbiamo anche a questo, perché come tutte le cose non sono soltanto esplosioni, ma arrivano da processi, come ci insegna anche il collettivo di fabbrica che ci dice «non è lo sciopero della giornata, non è la manifestazione della giornata che porta la lotta ma è un continuo procedere», e nel continuo procedere ci portiamo dietro anche queste donne.
Alberto: Per chiudere un’ultima domanda esterna al romanzo ma inerente al tuo lavoro. Hai lavorato come Rappresentante dei Lavoratori presso la CGIL ed hai avuto modo di monitorare quanto la sicurezza venga rispettata nelle ditte. Soprattutto lo hai fatto a Prato, un laboratorio politico e di lavoro colmo di contraddizioni e protagonista negli ultimi anni di tragedie come la morte di Luana D’Orazio e di Sabiri Jaballah, uccisi entrambi da due macchinari mentre lavoravano. Soprattutto la morte di Luana ha riacceso il dibattito pubblico attorno alla sicurezza nei luoghi di lavoro. L’attenzione che si è creata attorno alle due tragedie ha portato effettivamente a una modifica concreta riguardo la tutela dei lavoratori nel territorio?
Simona: Il dibattito era già iniziato col covid, quando si parlava di salute e sicurezza, dei famosi protocolli dietro la diffusione del virus. Insomma, si era iniziato a riparlarne e poi sono arrivate queste morti prepotenti, anche perché giovani. E questo ha rotto un altro immaginario che era quello del vecchio operaio stantio: e invece si torna a morire anche giovani. Muoiono anche le donne sul lavoro, e nemmeno questo veniva raccontato. Quindi paradossalmente con la loro morte hanno rotto un ulteriore immaginario. Il problema è che, come si è ritornati a una nuova normalità, si è smesso di parlare anche degli infortuni e delle morti sul lavoro. Queste finestre si aprono e si chiudono e bisognerebbe invece mantenerle continuamente aperte col racconto, con l’attenzione, perché rischi di fare un exploit e poi farle finire sotto i piedi come tutte le cose, e quindi da lavoratori essenziali a poterli licenziare con una mail in un batter d’occhio. Salute e sicurezza sul lavoro, come anche le altre cose che si diceva, si deve cercare di tenerle insieme, perché non è che i morti sul lavoro sono sganciati dagli altri fenomeni. Si pensa ai giovani e all’alternanza scuola-lavoro, si pensa al tessile e si racconta che adesso è tutto motorizzato e invece la gente lavora ancora con le vecchie macchine da cucire o con tutta una catena in cui sono peggiorate le condizioni, e soprattutto dove le catene operaie non sono più soltanto nei capannoni, ma sono negli uffici, sono nei controlli pubblici. Anche i controlli: quando si lancia il grido «più controlli nelle fabbriche», più controlli come però? Perché se sono questi i controlli, che sono diventati parcellizzati e sono diventati catene burocratiche a loro volta, e se ci mandi persone che non ne sanno niente del telaio che ha ucciso Luana D’Orazio, quei controlli li fai ma non vedi dov’è il pericolo. Perché ci vuole gente che ha una storia di controlli, di fabbriche, di macchinari, e questo si crea negli anni. Invece si è andato via via distruggendola con gli accorpamenti dell’Asl, con la disintegrazione delle competenze degli uffici tecnici dei controlli. Quindi insomma va visto in profondità perché urlare più controlli o più multe non serve a niente se non si va a vedere come poi vengono effettuati.
Alberto: Penso anche al progetto Lavoro Sicuro fatto nel 2013 a seguito del rogo del Teresa Moda, attuato dopo che cinque uomini e due donne cinesi sono bruciati vivi all’interno della fabbrica. Il piano è diventato poi un modo di controllare in maniera esclusiva le ditte a conduzione cinese, tralasciando le altre.
Simona: Ecco, quello è un piano che ha portato delle cose positive, perché qualcosa si è smosso, però guardando solo la titolarità cinese all’interno dell’intera filiera tessile dopo ti sfugge tutto il resto che non essendo sotto quella lente di controllo è ancora più libero di fare di peggio. E poi, cosa si andava a controllare? Solo gli impianti elettrici perché il rischio dell’incendio rispetto al Teresa moda era quello? Poi cos’altro andava approfondito? Ecco, tutte queste cose, anche i tecnici assunti, che erano settanta, bene. Ma ora che fine hanno fatto? Sono ancora precari? Se ne sono tornati a casa o dal sud da cui la gran parte proveniva? Sono tutte domande da porsi, altrimenti sono progetti che rischiano di diventare il fiore all’occhiello tipico delle amministrazioni ma poi se fatti senza fatti continuità e approfondimento, non sono in grado di mettere in discussione tutta la filiera.