Tra sala e cucina la vita del cameriere è davvero agra – Filippo la Porta su “La Repubblica”
Filippo La Porta – La Repubblica del 18 aprile 2025
l lavoro del cameriere di ristorante è solo in parte visibile, ha le sue dinamiche nascoste, le sue regole non scritte, le sue pene e i suoi incidenti (prepotenza dei capi, rapporto conflittuale tra sala e cucina, approccio a clienti sgarbati ed esigenti). Dopo aver letto Risto Reich. Il lavoro del cameriere (Alegre) di Luigi Chiarella — calabrese, autore di testi teatrali — si ha la riprova del fatto che la letteratura a volte può incidere sulla realtà.
Si tratta del resoconto, parzialmente autobiografico, dell’esperienza dell’autore, cameriere a Vienna per dieci anni. Protagonista è Luigi, costretto a trasferirsi nella capitale austriaca, che presenta il suo curriculum (attenzione: i titoli di studio sono controproducenti!), e poi trova vari impieghi (come cameriere), tutti precari, sottopagati e sindacalmente non protetti. Se coincidesse solo con un diario personale — accurato, meticoloso — sarebbe un utile documento antropologico con valore di inchiesta e un reportage giornalistico-narrativo. Ma appare nella collana “Working class” delle edizioni Alegre, e dunque dobbiamo chiedergli qualcosa di più.
Una possibile chiave di lettura ce la offre il libro stesso quando si sofferma sulle tele di Rothko in una sala della Tate Gallery: quei quadri raccontano con lentezza la loro storia, «come gli alberi» e chiunque entra nella sala si trova a rallentare il proprio tempo. Ora, il romanzo di Chiarella ci trasmette in ogni pagina, in ogni frase un ritmo, perlopiù febbrile («dai dai dai»), congestionato, e anche adrenalinico, pieno di energia. Il “tempo” della storia è accelerato, e altre volte improvvisamente rallentato, come quando il protagonista torna dalla moglie o porta a spasso i loro due cani. La sintassi della narrazione si intreccia con la sintassi della vita.
A un certo punto leggiamo che Luigi nella passeggiata dei cani incontra una coppia di austriaci: il maschio dà uno schiaffo alla femmina, lui vorrebbe intervenire ma scopre che ai loro occhi è totalmente invisibile, non esiste! Non sappiamo se questa scena sia mai avvenuta, ma certamente condensa in modo perfetto il sentimento della realtà del protagonista (rievoca un po’ Uomo invisibile di Ralph Ellison, il più bel romanzo sugli afroamericani).
La scrittura di Chiarelli consiste in un originale impasto linguistico almeno bilingue, in cui convergono gerghi, dialetti, frammenti di lingue imparate frettolosamente. Con dialoghi percussivi, riprodotti con un orecchio teatrale. Potrete imbattervi perfino in un brano quasi ispirato a Joyce. Tre pagine di flusso di coscienza – sostenuto virtuosisticamente da tre persone diverse – in cui uno chef stellato spiega con sussiego una elaborata pietanza.
Da tutto il libro affiora un odio di classe allo stato puro, un odio livido, assoluto, che potrebbe evocare un classico come Il popolo degli abissi di Jack London, o qualche dramma brechtiano: «Bisogna lavorare per poter pagare l’affitto, il mutuo… Ma se ne farebbe volentieri a meno. Fosse una cosa bella, il dover lavorare, i ricchi se lo sarebbero tenuto tutto per sé». È vero che la letteratura — pensava Pasolini — si potrebbe definire come tutto ciò che trasforma l’odio in amore. Però la scrittura di Chiarella, pur trasformando alchemicamente gli umori violenti in racconto epico ed espressione poetica, sembra conservare un residuo incombusto di quell’odio.