“Uccidi Paul Breitner” di Luca Pisapia – Paolo Nardi da “La spelonca del libro”
Calcio e politica, un binomio eterno. Non ho mai amato troppo chi continua a parlarne (tipo i tuttologi che si mettono a dissertare di massimi sistemi e di geopolitica ogni volta che ci sono i Mondiali), ritenendo che lo sport dovrebbe restare sempre sport ed essere trattato come tale, ma ahimè non posso negare che il problema esista, soprattutto in virtù del fatto che al calcio è spesso legato il consenso e che intorno a esso girano troppi soldi, figuriamoci in occasione di eventi leggendari come i Mondiali di calcio e le Olimpiadi. A riprendere il ragionamento ci pensa questo nuovo Uccidi Paul Breitner. Frammenti di un discorso sul pallone, oggetto narrativo non identificato fortemente politico che mescola elementi di fiction a riflessioni filosofiche, economiche e sociologiche. Lo scrive Luca Pisapia, giornalista de “Il Manifesto”, “La Gazzetta dello Sport” e “Il Fatto Quotidiano”, una specie di Buffa in versione comunista che cita Borges, Fitzcarraldo di Herzog, Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano (autori che personalmente non conosco), stabilisce arditi paralleli tra l’esultanza di Gascoigne e Sheringham con i giochi erotici fra Hitler ed Eva Braun, affastella fatti e racconti che spaziano su e giù per la storia, in prima e terza persona, senza soluzione di continuità, nel segno dell’ibridazione di generi e stili (ci sono perfino dialoghi a mo’ di sceneggiatura), fa emergere le contraddizioni del sistema, chiama in causa il lettore e punta spesso sullo sdegno. Magari, se siete di quelli che non condividono la visione del capitalismo come demone che privatizza i profitti e socializza le perdite grazie ai contributi statali, non è la vostra lettura ideale. Attenzione, però, perché Uccidi Paul Breitner è un libro interessantissimo, che strappa ogni residua illusione o poesia e dimostra che non esiste contraddizione fra calcio e capitalismo: il calcio è una merce, un dispositivo dello spettacolo, un apparato del potere, e per questo nasce moderno, anzi, «non esiste un calcio moderno contro cui scagliarsi oggi in nome di bei tempi mai esistiti». Ecco l’invito a evitare le narrazioni consolatorie e la falsa nostalgia dei bei tempi.
Nessuno è riuscito a sfuggire alle logiche del capitale, come dimostra emblematicamente il Paul Breitner del titolo, il rivoluzionario capellone maoista che non solo fu il primo calciatore ad avere una sponsorizzazione privata ma soprattutto si trasferì al Real Madrid percependo soldi dal caudillo spagnolo Francisco Franco, finendo per questo nel mirino della banda Baader-Meinhof (che incarnò gli anni di piombo nella Germania degli anni Settanta) in quanto compagno traditore controrivoluzionario. Il calciatore, infatti, «eccede sempre il suo ruolo di sportivo e incarna una funzione ideologica ed economica, al pari della star hollywoodiana che si pone in quel perverso rappporto del feticismo della merce in quanto mediatore tra desiderio – investimento emotivo sulla celebrità, cioè ti regala soddisfazione – e riconoscimento – ossia investimento economico sulla celebrità, ne vai a vedere la performance o ne acquisti un feticcio, sempre pagando, per esserne parte anche tu». A questo ragionamento non si sottrae nemmeno lo schema, nella fattispecie quello del mitico calcio totale: nato socialdemocratico e calvinista con l’olandese Rinus Michels, diventato comunista con l’inglese Bill Shankly, applicato scientificamente secondo i dettami del socialismo reale dal colonnello ucraino Valerij Lobanovs’kyj, alla fine «si schianta sulla sussunzione del desiderio sovversivo da parte del capitale nell’applicazione neoliberista di Arrigo Sacchi», araldo del calcio come veicolo promozionale del padrone e delle industrie dello spettacolo dell’intrattenimento (Berlusconi). Inutile cercare un senso politico al Barcellona di Guardiola, il cui tiki taka è «ammirevole senso estetico», «pura adesione formale» e «frutto della globalizzazione dei saperi», perfetta rappresentazione della «miseria impolitica del contemporaneo».
Il libro è organizzato attraverso macronuclei narrativi: il primo è Argentina 1978 (calcio e potere), Brasile 2014 (calcio ed e economia) e Usa 1994 (calcio e media). Si comincia quindi dalla Coppa del Mondo tenutasi in Argentina nel ’78, quella orchestrata dal regime di Videla e dei desaparecidos che venivano torturati e assassinati tra le mura degli infami Garage Olympoil (il regime chiamò il suo piano criminoso “riorganizzazione nazionale”); niente di nuovo, visto quanto fatto da Pinochet in Cile e dai generali brasiliani come Emílio Garrastazu Médici. Protagonista è Arcadio Lopez, chiuso in un bunker mentre guarda la finale Argentina-Olanda da un piccolo televisore, tormentato da urla strazianti e voci interiori: alla fine si scoprirà chi è reamente e quali fantasmi lo tormentano. Quasi quarant’anni dopo, è la volta di Mr. M, un lurido superpoliziotto intento a coprire gli intrallazzi della Fifa e dei suoi funzionari-agenti segreti nei palazzi del potere di Rio de Janeiro (nel contesto della lotta per il potere tra Blatter e Platini) per l’organizzazione della Coppa del Mondo 2014, ghiotta occasione per piegare ogni tendenza di socialismo bolivariano nel Paese, distruggerne l’economia e far trionfare le multinazionali americane («I grandi eventi, sportivi e non, da sempre servono a privatizzare i profitti e socializzare le perdite, a mutare il paradigma dell’architettura sociale di una città o di un paese favorendo l’ingresso di una classe sociale più forte attraverso una vera e propria pulizia etnico-sociale delle fasce deboli della popolazione»). Chiude il cerchio Usa ’94, quando il calcio subisce la definitiva trasformazione in prodotto televisivo e immagine come lo conosciamo noi oggi grazie al modello Premier League e alla vagonata di miliardi di Sky, un modello reso possibile dalle tragedie dell’Heysel e di Hillsborough, con la responsabilità diretta della polizia e indiretta della Tatcher che hanno dimissionato un’intera classe sociale già privata del lavoro dalle privatizzazioni: «Il tifoso, lo spettatore, non possono afferrare il pallone, che in quanto merce è illusione». Insomma, il calcio del Taylor Report sull’obbligatorietà del posto a sedere allo stadio, che «può quindi essere inteso come un ritorno ad antiche forme di fruizione teatrale totalmente passive»: non a caso sono gli anni dell’affermazione del New Labour di Tony Blair, convinto sostenitore dell’idea di una sinistra parlamentare che «deve abbandonare qualsiasi idea di equità sociale in favore di una cieca e fideistica adesione al libero mercato». E non è nemmeno un caso che Pisapia immagini un bambino che guarda Italia-Nigeria ai Mondiali di Usa ’94 su un televisore di un grande centro commerciale, solitario, esultando al gol di Roberto Baggio e accorgendosi che accanto a lui non c’è nessuno.
Pisapia ne ha per tutti, dai giornalisti pennivendoli («I giornalisti sportivi sono il momento del falso, quindi sono l’unico elemento di verità che c’è nel calcio») ai procuratori (pronti a depredare le famiglie del terzo mondo per intascare e riciclare denaro), attori fondamentali di una narrazione hollywoodiana che rispecchia un copione già scritto e a volte assume le connotazioni di una vera e propria farsa, come dimostrano i casi di giocatori privi di talento come Carlos Kaiser e Ali Dia (quest’addirittura spacciato come cugino di Weah), capaci di passare da una squadra all’altra per un’intera carriera senza che nessuno si renda mai conto del loro effettivo valore. E non si pensi che tutto questo non abbia toccato il nostro Paese: l’Italia è l’emblema del pallone come potere, dal fascismo che lo utilizzò a fini propagandistici (con la retorica del contropiede e dell’eroe “balilla” Giuseppe Meazza che si carica addosso il peso dell’intero Paese per trascinarlo alla vittoria, del fare di necessità virtù e vincere con la furbizia e l’inganno contro il predominio fisico del barbari d’oltralpe) al chiacchieratissimo Italo Allodi, dirigente che ha contribuito decisivamente alle fortune delle squadre per cui lavorava (la Grande Inter, la Juventus, la Fiorentina e il Napoli), a suon di doping e arbitri comprati. A Torino la sua grande rivoluzione semiotica, l’intuizione di allestire una squadra composta da calciatori provenienti dai quattro angoli della Penisola per far identificare tutti, soprattutto gli operai meridionali sfruttati e malpagati alla Fiat: i trionfi domenicali della Juventus avrebbero dovuto essere l’adeguato strumento per spegnere ogni tipo di ardore e stemperare le pulsioni di rivalsa. Non stupisce che il suo grande discepolo sia stato un certo Luciano Moggi. Per non parlare del tipico atteggiamento italiano di autorappresentarsi sempre come vittima dei poteri forti, nel calcio come nella politica e nella vita quotidiana: una retorica condivisa da giornalisti sportivi, esperti di comunicazione e autorità culturali, perché essere vittime dà prestigio, aumenta l’autostima, genera identità e garantisce innocenza.
Se però il calcio da sempre favorisce i nazionalismi, a volte però produce anche i suoi anticorpi; è il caso delle storie del partigiano Bruno Neri, di Michele Moretti che fucilò Mussolini, di Paolo Sollier che usava il pugno chiuso per salutare il pubblico; e ancora dell’algerino Rachid Mekhloufi che gioca per il Fronte di liberazione nazionale del suo Paese, la Dinamo Kiev che sconfisse i nazisti nella certezza di andare incontro alla morte, l’anarchismo pirata della squadra amburghese del St. Pauli, l’ex calciatore Romario che combatte contro la corruzione in Brasile, il ribelle Eric Cantona che finisce però per diventare funzionale alla narrazione del sistema. O personaggi genio e sregolatezza come George Best e Robin Friday, capaci di rovinarsi (letteralmente) con le loro stesse mani. Forse anche parteggiare per squadre e calciatori veramente di sinistra è un inganno, e non serve per restituirci uno sport finalmente pulito.
Se fin qui il discorso è condivisibile, altre cose lasciano abbastanza perplessi, come quando l’autore sostiene che le critiche a Balotelli dopo l’eliminazione da Brasile 2014 siano stato il risultato di una regia volta a demonizzare il negro (Balotelli è criticabilissimo per i suoi atteggiamenti, e direi le stesse cose se fosse un islandese bianco e biondo), e ancora sulle considerazioni sulla vittoria di Spagna ’82 come risultato del compromesso storico del cattocomunista Bearzot o sui successi del calcio italiano del Secondo Dopoguerra di Nereo Rocco e Helenio Herrera fedele specchio di “un paese di fascisti che stava imparando a essere social-comunista rimanendo rigorosamente attaccato alle regole della chiesa […]. Un calcio un po’ bigotto che ci permettesse di commettere peccati senza andare all’inferno”, secondo la definizione di Mario Sconcerti, lo stesso che diceva che Cristiano Ronaldo avrebbe fatto la riserva nella Juventus. Ah, a proposito di Ronaldo: peccato che il suo trasferimento proprio alla Juve sia arrivato dopo la pubblicazione di questo libro. Un capitolo sulla vicenda ci sarebbe stato proprio bene. Anche se forse la lettura di Uccidi Paul Breitner potrebbe fornire la chiave di lettura dell’intera vicenda.