Una vita piena (OperaViva Magazine) – Francesco Festa su Operaviva
L’oggetto narrativo non identificato di Valerio Minnella
Cos’è una vita piena? E cosa può una vita piena? Gilles Deleuze, maneggiando con cura concetti di Baruch Spinoza, abbozza alcune riflessioni sulla vita piena, o sul concetto di immanenza. Una vita piena, immanente, è completa potenza, tanto da esercitare il «coraggio di un’assenza di misura». Una vita senza misure, debordante, ma in realtà una filosofia pratica per costruire una felicità immanente e soprattutto una vita libera.
La ricerca di Valerio Minnella, raccolta nel libro biografico, Se vi va bene bene se no seghe, a cura di Wu Ming 1 e Filo Sottile (Edizione Alegre, 2023, pp. 350, €18), è la ricerca di una vita quale ricerca della libertà, senza prestare il fianco a qualsiasi idea di libertà individuale se non borghese, anzi, la sua idea pratica di libertà agisce come una singolarità che si compone con altre singolarità al fine di lottare per una libertà collettività, una libertà comune.
«Un altro mondo è possibile» gridava fra i due secoli il movimento no global o il movimento dei movimenti, segnalando politiche, comportamenti e soggettività del «realismo capitalista»: di lì a qualche anno il neoliberismo avrebbe calato il carico da novanta e un’ipoteca sulle nostre vite. Ebbene Minnella quell’altro mondo ha provato a costruirlo, in alcuni momenti e in alcuni luoghi ci è anche riuscito. Le pagine del libro trasmettono questa continua tensione, una sorta di pars construens o di via di fuga dagli imbrigliamenti dei pensieri e dalle istituzioni totali, cartografando contrade a venire.
In effetti se un termine può enucleare la sua vita, di certo, è quello della coerenza. E badate: non con quell’accezione moralistica, adusa nei talk show televisivi, per cui chi lo menziona è lontano anni luce dalla coerenza. Statene certi. La coerenza, qui, è quella abbozzata da Italo Calvino nelle Lezioni americane, cioè, il «coraggio di iniziare e finire» una cosa. E torna quella vita immanente, cui abbiamo accennato prima. Così come, pagina dopo pagina, cresce un sentimento di ammirazione verso chi è capace di condurre la propria vita con coerenza, coraggiosamente perseguire dall’inizio alla fine i propri valori e i propri ideali. Detto altrimenti, fra le righe si intravede una massima trontiana: «chi pensa deve agire». Ciò che Minnella ha pensato, l’ha agito. Pensava fosse giusto fare una cosa, e l’ha fatta senza pensarci due volte: pensava fosse giusto partire e spalare da giovane scout il fango nella città fiorentina dell’alluvione del ’66, e poi, assistere le popolazioni nella valle del Belice dopo il terremoto del Sessantotto – dove iniziò concretamente la sua scelta nonviolenta e verso l’obiezione di coscienza ‒ e l’ha fatto. Una volta pensato fosse giusto e coerente con i propri valori, senza altri giudizi di valore, si è mosso alla ricerca della libertà comune.
Nondimeno quanto andiamo dicendo potrebbe sembrare una vita in discesa, una vita condotta lungo un piano liscio, lineare, facile. Nient’affatto. Una vita piena ha significato attraversare piani striati, fangosi, difficoltosi, subire inenarrabili sofferenze, causate per lo più dalla persecuzione dello Stato sotto forma di arresti e carcerazione. Agli inizi degli anni Settanta non era ammessa la renitenza alla leva o altre forme di sottrazione al militare, quali l’obiezione di coscienza alle armi: di contro, voleva dire mettere in discussione il potere costituito, mettere a nudo il re, ossia la sua esistenza e la perpetuazione del potere stesso. La vita di Minnella è dunque l’estrema sintesi di un rapporto risalente alla notte dei tempi: il rapporto conflittuale fra la libertà e lo Stato, fra le pratiche di sottrazione e i dispositivi di controllo.
Se vi va bene bene se no seghe, per quanto detto finora, pare abbia un taglio biografico, invece è qualcos’altro. È un «oggetto narrativo non identificato» – com’è la collana diretta da Wu Ming 1 per Edizione Alegre. Un testo ibrido, non classificabile, difatti, l’originalità risiede proprio nel fuoriuscire dai canoni dell’intervista biografica romanzata: è un flusso narrativo che si dipana fra tre voci, un dialogo corale, collettivo, fra Valerio Minnella, Wu Ming 1, Filo Sottile e incursioni di un’immaginaria Alice Radiofonica.
Il titolo riporta in poche parole quanto avvenuto la notte del 12 marzo 1977, ventiquattrore dopo l’uccisione del militante di Lotta Continua, Francesco Lo Russo, e i successivi scontri nel Centro di Bologna. Minnella al microfono di Radio Alice. La polizia in assetto antisommossa dietro la porta cerca di irrompere nella radio. Con una voce di malcelata tranquillità chiede al compagno in studio: «Mi dai un disco che mettiamo su un po’ di musica che…». «Alice?». «Ecco qui Beethoven… Se vi va bene… eh… bene, se no… seghe… eh». Dopo Beethoven: «Dunque, la polizia continua a battere sulla porta, continua a urlare di aprire». Rumori e grida in sottofondo. E, di nuovo, Minnella: «Sono entrati! Sono entrati! Siamo con le mani alzate…». A seguire, rumori, voci che impartiscono ordini. Infine, il silenzio.
Anni dopo la registrazione dell’irruzione è finita nelle scene conclusive di Lavorare con lentezza, il film di Guido Chiesa sul marzo Settantasette. E prima, in Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva (ShaKe Edizioni, 2002). Mutatis mutandis: questa registrazione a distanza di vent’anni, con toni assai più concitati, l’abbiamo riascoltata nella notte del 22 luglio 2001, a Genova, durante l’irruzione dei Carabinieri alla scuola Pascoli e all’interno del Mediacenter, in concomitanza con la mattanza nella scuola dirimpetto, alla Diaz. Anche in quell’occasione il braccio armato del potere costituito ha voluto zittire, e farlo con cilena atrocità, i mezzi di comunicazione e massacrare chi ha provato a raccontare la violenza dello Stato quando questo è stato messo a nudo. Il racconto corale, come riportato nel sottotitolo, giunge all’oggi, attraversando i decenni successivi ai Settanta, il che è sintomo della carsicità dei movimenti e soprattutto della capacità di concatenarsi fra essi. Così come le vite vissute da Minnella: appaiono molte vite eppure sono una sorta di concatenamenti di singolarità tali da divenire un flusso di azione collettiva. Infatti, il libro per certi versi sembra un apprendistato all’azione collettiva. Riportiamo un passaggio che ce ne restituisce il senso:
Tutti quelli che passano la loro vita politica a fare dei distinguo, a frazionarsi sulla base delle diversità, dovrebbero pensarci. Ogni volta che ti dividi accetti di perdere perché la vittoria è contenuta solo nell’unione e nella collaborazione delle tante diversità. (p. 127)
Da «La scatola di Franca Madonia», Sensibile Comune – Le opere vive, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 14-22 gennaio 2017.
Molte le vite di Minnella, tutte accomunate da filigrane che ci permettono di intravederne proprio la concatenazione dei movimenti e delle singolarità e dei collettivi. L’alluvione di Firenze, il Belice, il Sessantotto bolognese, le lotte del volontariato, le lotte antimilitariste, l’obiezione di coscienza, dopodiché Radio Alice e il movimento del Settantasette. Dal lungo Sessantotto che ha inondato i Settanta, con riflessi negli Ottanta, la «grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale», per dirla con Primo Moroni e Nanni Balestrini, giunge come talpa al terzo millennio, a Genova e al G8, alla nascita delle Tele street secondo il metodo Don’t hate the made become the media, dove Minnella ha contribuito alla nascita della Federazione Radio Emittenti Democratiche (FRED) e della tv di strada OrfeoTv.
Del resto, fra le filigrane accomunanti le molte vite, ve n’è una la quale rinvia alle sue competenze giovanili, e scolastiche e famigliari, cioè, al suo interesse per la musica, la tecnologia e l’informazione. La sua biografia è sintesi del marxiano concetto di General intellect del «Frammento sulle macchine» dei Grundrisse: una combinazione di «competenza tecnologica» e intelletto sociale, o conoscenza sociale generale offerta per una prospettiva di liberazione futura. O per lo meno in alcuni frangenti delle molte vite tale libertà è divenuta immanente.
Un’ultima filigrana di cui vale la pena accennare è la lotta per l’obiezione di coscienza. Buona parte del libro ripercorre il lungo e doloroso percorso compiuto per il riconoscimento di una scelta di vita, non mediata dallo Stato, e al contempo, quale compromesso, la scelta del servizio civile. In queste pagine è molto prensile il senso di determinazione per la libertà contro una forma di istituzione totale come l’esercito. Ne riconosciamo la condizione di estraneità da una forma Stato imposta da fuori, tutt’altro che democratica, e assai lontana dall’idea di patto sociale. In realtà, appare retaggio del rapporto di subalternità fra sovrano e suddito: attualizzato, ordine costituito e cittadinanza. Valerio Minnella, nel 9 febbraio 1971, firma assieme ad altri sette obiettori di coscienza una Dichiarazione collettiva di obiezione di coscienza in favore dell’istituzione del servizio civile. Un testo di un’attualità sorprendente. Ecco, alcuni passaggi:
La divisione del mondo in blocchi contrapposti e l’inserimento dell’Italia nella Nato fa sì che la difesa, se così la si può chiamare, dell’intera area geografica e politica dei paesi “coperti” dall’alleanza militare, sia affidata non già agli eserciti nazionali ma per intero alla macchina bellica della potenza guida, ovvero gli Stati Uniti, il cui armamento nucleare è in grado di assolvere questo compito, con la conseguenza però di causare la distruzione dell’umanità. Infatti sotto le armi non si parla di politica, non si può fare sciopero, è reato avanzare proteste collettive, le punizioni si scontano anche se ingiuste, non esiste libertà d’informazione e di religione, in sintesi non sono nemmeno rispettati moltissimi articoli della costituzione. Così l’ambiente sotto la naja educa al qualunquismo, al rispetto dell’autorità superiore, qualunque essa sia.
In questo modo i giovani, tornati alla vita civile, abituati al signorsì della caserma continueranno ad obbedire passivamente al «signor direttore», al «signor capoufficio» al «signor preside» al «monsignor vescovo» ecc. divenendo dei buoni servi del sistema.