Chi può raccontare il securitarismo di sinistra?

Li conosciamo, quelli che parlano male dei familiari. Fanno lunghi discorsi – tipicamente fuori da scuole materne o elementari, mentre aspettano l’uscita dei piccoli – dando dei testoni, dei rompiscatole, ai propri figli, e sembrano godere nel mettere l’interlocutore in una situazione paradossale. Questi dovrà infatti sempre contraddirli sostenendo che quei bimbi, al contrario!, sono fantastici, giustamente vivaci, dei veri tesori. Mai e poi mai, a nessun costo, potrà dare ragione al genitore lamentoso che anzi, al primo cenno di conferma di ciò che dice, ne sarebbe tremendamente offeso.
Ho sempre trovato spiacevole questo atteggiamento, e sintomatico di una qualche problematica irrisolta, ma l’espressione degli affetti segue talvolta vie imperscrutabili, e dunque è opportuno sospendere giudizi severi. Diverso è il caso di chi pretenda di riservare a sé la critica di fatti con un’innegabile portata politica, come sembra fare la filosofa del diritto Tamar Pitch in una recensione del mio La buona educazione degli oppressi.
Il familiare di cui Pitch pare volersi riservare il diritto di parlar male è Città Sicure, ambizioso progetto di ricerca criminologica affidato nel 1994 dalla regione Emilia Romagna alla guida di Massimo Pavarini. Progetto a cui Pitch ha partecipato. Ma la vicenda di Città Sicure è un innegabile fatto politico, e dunque è fatale che sia analizzato anche con modalità e fini ben diversi da quelli di chi si attribuisce il diritto esclusivo alla critica.
Nel mio libro considero Città Sicure come il principale motore teorico dell’adesione della sinistra istituzionale italiana al securitarismo, e questo in gran parte a dispetto delle intenzioni degli studiosi coinvolti. La tesi è discutibile, ovviamente, ma la centralità dell’Emilia-Romagna nella politica del Pds, i successivi ruoli del presidente regionale di allora (Pier Luigi Bersani) e la crescita di Città Sicure anche oltre i confini amministrativi, proseguita fino ai primi anni Zero, sembrano darmi ragione.
Di quel progetto Pitch scrive: «sia all’epoca che in seguito ho espresso più di un dubbio su questa vicenda, accusando noi stessi di rischiare di essere e poi di essere stati apprendisti stregoni». Jock Young, criminologo britannico del Left Realism (corrente a cui si ricollega il gruppo di Pavarini), notavagià sul finire degli anni Novanta come le idee dei realisti, una volta prese in mano dai laburisti blairiani, avevano subito «una metamorfosi» e venivano «rigurgitate addosso» agli studiosi che le avevano inizialmente elaborate; mentre Giuseppe Mosconi (anche lui, al tempo, nel progetto emiliano) analizza più di recente l’uso spregiudicato del vocabolario elaborato da Città Sicure (con «deformazioni e […] imprecisioni non lontane dal tradursi in un sostanziale stravolgimento […], con l’aggravante della strumentalizzazione») all’interno del Decreto Sicurezza di Minniti, forse il provvedimento più marcatamente di destra tra quelli approvati dalla sinistra di governo.
I testi qui sopra ricordati, insieme a molti altri, dimostrano un forte nesso tra quella teoria e la prassi politica, poi ovviamente la riflessione spinge a divaricare in modo più o meno marcato, a seconda delle sensibilità, le radici teoriche dagli sviluppi politici. Pitch, con, la formula degli «apprendisti stregoni» fornisce un’interpretazione; ma io, pur aderendovi, scateno le sue ire. Scrive infatti la filosofa:
«il ragionamento [di Bukowski] è circolare e improntato ad una sorta di teoria cospirativa: sembra infatti, leggendolo, che sia gli studiosi (criminologi, sociologi, ecc.) sia i politici di qualsiasi colore (ma il bersaglio vero sono le sinistre al governo, specie di quello locale, anzi specie di quello bolognese) proprio questa intenzione e consapevolezza avessero, reprimere e disciplinare le “classi subalterne”».
In un rinvio confuso tra Città Sicure (il progetto) e il securitarismo in generale, Pitch mi accusa così di portare avanti una tesi che essa stessa ritiene «condivisibile» (sic!), ovvero lo scopo disciplinare di decoro e sicurezza, ma di non argomentarla e di usare bibliografia ed esempi solo «utili allo scopo» – che sono poi i testi degli studiosi e delle studiose coinvolti, lei compresa! Oltretutto l’accusa non è neppure fondata, visto che il mio libro è pieno di citazioni di studiosi, giornalisti e cittadini che tessono le lodi del decoro. Citazioni che smonto, perché il mio è dichiaratamente un libro militante, anche se Pitch ci fa sapere en passant che esso sarebbe «presentato come autorevole saggio» (da chi? dove?), formulazione che mai sottoscriverei, non foss’altro perché la veste dell’autorevolezza mi è invisa quanto quella dell’autorità. Con quella definizione caustica di «autorevole saggio» Pitch infila il secondo colpo basso: il primo è infatti nell’accusarmi di disegnare una «teoria cospirativa». E l’accusa di complottismo, è ormai noto, è un trucco retorico caro alla sinistra moderata e neoliberale nei confronti di chiunque osi tracciare genealogie dell’inferno in cui ci dibattiamo.
Più avanti Pitch ripete il concetto: la mia tesi è
«condivisibile, anche perché da molti di noi più volte espressa in questi ultimi trenta anni, nonché debitamente analizzata, e raggiunta, piuttosto che posta aprioristicamente: ma, secondo Bukowski, non adeguatamente spiegata al pubblico comune, essendoci noi limitati, appunto, al milieu accademico. E vabbè».
Evitando di soffermarmi sullo spocchioso «vabbè», confermo quanto attribuitomi da Pitch, confortato peraltro da opinioni di persone interne al milieu accademico, e cioè che la tesi (sull’apprendistato degli stregoni) non è stata adeguatamente spiegata al «pubblico comune», cosa che invece prova a fare il mio libro. Ma il cartello «chi tocca muore» è piazzato più vicino al cuore della questione, ovvero la contesa sulla storia di Città Sicure. Ecco come Pitch fa la caricatura di quello che scrivo nel libro:
«qui arriviamo noi, criminologi critici ammaliati dal realismo di sinistra […] che facciamo (tra le altre brutte cose) questo: mandiamo nelle tranquille e pacifiche città emiliane un manipolo di ricercatori che, chiedendo in giro agli ignari passanti se si sentono sicuri, instillano in questo modo il germe dell’insicurezza […].»
In realtà il dubbio atroce che quell’insistito parlare di sicurezza (in un senso tutto ripiegato sulla microcriminalità) produca paura e senso d’insicurezza non lo invento certo io. All’inizio degli anni Novanta «sicurezza voleva ancora dire, prevalentemente, sicurezza sociale», come ricorda altrove proprio Pitch: lo scarto di retoriche e di frame con i progetti di ricerca di Città Sicure, di poco successivi, è innegabile. Inoltre, le Tesi di fondo del comitato scientifico del progetto (Quaderni di Città Sicure n. 1, 1995), raccomandano, a proposito delle previste ricerche sulle vittime di crimine, di «operare con la dovuta prudenza» evitando di operare «da amplificatore dell’allarme sociale». Il Quaderno di Città Sicure numero 4 del 1996 riporta la preoccupazione di tutti (sic: tutti!) gli intervistati dai ricercatori nel quartiere Barca di Bologna sul rischio che la ricerca, di per sé stessa, «rinforzi il pregiudizio negativo» nei confronti del quartiere, quartiere in cui invece non accade «nulla di peggio» che nel resto della città. Mentre il Quaderno numero 3 (1996) scova a San Faustino, Modena, persone che letteralmente non si sono accorte del supposto allarme criminale se non attraverso le pagine gridate dei giornali; e quindi – mi domando raccontando quella vicenda nel libro – quanto sarà stato ancora più inquietante l’arrivo non più di soli giornalisti a caccia di scoop, ma di serissimi studiosi con le loro interviste sulla criminalità? Domande, queste, che emergono spontanee dalla lettura dei primi testi di Città Sicure, ma che la metabolizzazione dell’allarme securitario lascia irrisolte. Neppure gli studiosi di Città Sicure sembrano immuni a quella metabolizzazione: in una ricerca più tarda (pubblicata nel 2002) sul trasporto pubblico, si finisce per abbandonare gran parte delle cautele, rubricando persino il ritardo dei treni tra gli elementi che provocano insicurezza (ne parlo qui).
A questa mia ipotesi sul feedback delle ricerche Pitch non risponde se non con l’anatema del sarcasmo, avendo io la colpa di aver ipotizzato che, a furia di «prendere sul serio le preoccupazioni per il crimine» (come recita il motto del Left Realism), i realisti abbiano finito per prendere sul serio – e alimentare – anche l’allarmismo smisurato per il crimine. Per il gusto di strafare, poi, Pitch mi attribuisce l’accusa al gruppo di Pavarini di essere «accademici chiusi nelle loro torri d’avorio». Espressione che già per la sua banalità non mi appartiene, ma che oltretutto sarebbe in questo caso assurda, visto che non critico affatto una chiusura accademica, ma al contrario gli errori che quegli accademici fanno nell’andare in strada e nei quartieri, il loro non aver saputo impedire di essere usati dai politici e il non riconoscere questioni di framing grandi come il noto elefante di Lakoff.
Con l’evocazione della turris eburnea il contatore segna il terzo colpo basso, ovvero la velata accusa di anti-intellettualismo: chi osa criticare il gotha della criminologia critica italiana, insomma, deve essere per forza un po’ complottista, populista, tendenzialmente grillino. E ovviamente anche sprovveduto, visto che più volte Pitch sostiene che io faccia «cominciare tutto con la New York di Rudy Giuliani (1994)», quando invece i capitoli primo e secondo del mio libro trattano… degli anni Settanta e Ottanta! Ma Pitch non frena la penna, e mi accusa a buffo di ignoranza bella e buona (altra scorciatoia retorica amata dalla sinistra moderatissima), scrivendo «un bolognese può davvero ignorare la storia di Massimo Pavarini?». Ovviamente non posso vantare la conoscenza del pensiero di Pavarini che ha chi ha collaborato con lui, ma ciò che mi è ben chiaro è che quel pensiero non è né statico né tutto egualmente critico, e lungo gli anni spazia da riflessioni radicali su carcere e diritto penale fino, al contrario, ad assunzioni piuttosto acritiche di concetti conservatori. Quali sono, per citare un esempio, quelli contenuti nella relazione sul «bene pubblico della sicurezza a Bologna», datata dicembre 2005, dove Pavarini si spinge ad apprezzare la costituzione del «Reparto anti-degrado» della Municipale, per il quale vede persino un ruolo «formativo» per «fare sì che in un tempo ragionevole la maggior parte degli agenti della Polizia Municipale sia messa in grado di “parlare” la stessa lingua delle Polizie di Stato» (paragrafo 4.4). Difficile non riconoscere in questa autorevole benedizione una delle (molteplici) cause del consenso bipartisan alla trasformazione delle varie Polizie Locali in un corpi aggressivi, sempre più armati, e disponibili a ogni avventura securitaria.
Inoltre, alla presentazione romana del mio libro da cui Pitch muove, la studiosa ha liquidato con poche parole la presenza del sociologo Marzio Barbagli in Città Sicure, come fosse stata una spiacevole parentesi, ma nella sua pagina autobiografica Barbagli si dice membro di quel comitato scientifico dal 1994 al 2000, quindi proprio negli anni più determinanti di quell’esperienza. È chiaro che sei anni portandosi dietro un intellettuale così reazionario, e così influente, è difficile che passino senza lasciar traccia.
Tra le accuse che Pitch mi rivolge due sono invece pertinenti. La prima è di non affrontare la questione di genere, se non con un breve cenno (in realtà un paio di paragrafi). Quello che omette Pitch è che in apertura di quelle righe dichiaro di sentire la necessità di una sistematica storia di decoro e sicurezza in un’ottica di genere, auspicando che il mio libro possa risultare strumentalmente utile a chi eventualmente vorrà scriverla (ponendo così implicitamente quell’opera su un gradino superiore di importanza nei confronti della mia). La seconda critica pertinente – che però, a differenza della prima, non sottoscrivo – è quella di aver sopravvalutato il ruolo dei realisti di sinistra emiliani e italiani. Scrive Pitch:
«La questione della sicurezza urbana era già stata messa a tema in molte città europee, soprattutto in Francia e nel Regno Unito, e che noi la riprendessimo o meno sarebbe comunque arrivata anche in Italia.»
Questa formulazione, quasi un’apologia dell’ineluttabilità di un fallimento, conferma un’ipotesi che faccio nel mio libro, ovvero che il realismo criminologico di sinistra possa essere letto come una variante di quello che Mark Fisher chiama Realismo capitalista, che si sostanzia non tanto nell’adesione convinta ai dogmi neoliberali, quanto piuttosto nella «sensazione diffusa» che «sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente».
Il securitarismo (che ineluttabilmente accompagna la distruzione del welfare) sarebbe arrivato comunque in Italia, afferma Pitch. Motivo in più, direi io, per ostinarsi a immaginare, tracciare, conservare gli strumenti teorici… per costruire un’alternativa radicale. Perché non farlo, dunque? Lo si intuisce dalla chiusura della recensione:
«L’impressione, sarò cattiva, è che alla fine ciò che si ottiene (aldilà delle intenzioni) è l’ennesimo testo autoconsolatorio di una certa sinistra-sinistra.»
Ecco dunque lo spettro che inquieta Pitch: quello della «sinistra-sinistra», caricaturalmente, come da tradizione, raccontata come autoreferenziale e autoconsolatoria. Eppure, dopo decenni di disastri prodotti dalla sinistra di governo, e in un presente in cui gravano sulle spalle della sinistra-sinistra persino i compiti a cui ha abdicato la sinistra borghese (sul diritto a vivere la città, per dirne uno), agevolata in ciò dal legalitarismo securitario sparso da Città Sicure («aldilà delle intenzioni», ça va sans dire), sarebbe il caso di restare concentrati su quelle responsabilità, piuttosto che sul modo in cui altri le raccontano.