Perché la fissa per il ‘decoro’ nelle città ci sta portando in un mondo distopico
Da Vice Italia
Hard Times di Ivan Preziosi (Radical Fiction) e Hello my name is (che ne ha realizzato le musiche) è un “videogioco survival con crafting” – ovvero uno di quei videogiochi dove devi sopravvivere a un mondo ostile raccogliendo risorse, costruendo strumenti, mangiando, dormendo e cercando di soddisfare tutti i bisogni fisiologici del tuo personaggio.
Ma il personaggio che controllo mentre gioco a Hard Times è un comune senzatetto, e il mondo ostile raccontato è una città contemporanea (vagamente ispirata a Roma) con le sue politiche del decoro, la sua polizia, le sue leggi.
Ho quindi deciso di fare una chiacchierata con Ivan Preziosi stesso e con Wolf Bukowski – autore de La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro – per capire come l’ossessione per il “decoro urbano” e contro il “degrado” abbia trasformato le nostre città in un cattivo degno di un videogioco.
L’intervista è stata editata per ragioni di brevità e chiarezza.
MOTHERBOARD: Il “Decreto Minniti” definisce il “decoro” come parte della “sicurezza urbana”: “si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce [sic] alla vivibilità e al decoro della città.” Il “decoro” appare anche citato un po’ di sfuggita nel precedente “Decreto Maroni”—ma che cosa è questo “decoro”?
Wolf Bukowski: Il decoro è il set di norme comportamentali adatte alla parte più reazionaria e ottusa della classe media, quella che passa il tempo davanti alla tv, esplorando nuovi centri commerciali o commentando acida le pagine dei quotidiani locali su Facebook. Chi ama il decoro odia chi vive negli spazi pubblici per scelta – e cioè i giovani, i graffitari, chi vuole bersi una birra in piazza – e odia anche chi si trova costretto a vivere negli spazi pubblici, perché non ha casa o perché abita in stanze così affollate da voler restar fuori casa il più possibile.
Ivan Preziosi: Io quando parlo di retoriche del “decoro” intendo un sistema di argomenti volti a giustificare un approccio di tipo securitario e disciplinare a quelli che, invece, sono sostanzialmente problemi sociali e strutturali, soprattutto legati alla marginalità e alla povertà. Per quanto mi riguarda si tratta di una maniera – intrinsecamente di destra – di approcciare problemi complessi con soluzioni semplificatorie e propagandistiche, tese maggiormente a nascondere e reprimere i problemi piuttosto che agire per una loro risoluzione positiva.
Come è arrivata in Italia la politica del decoro, che nasce negli USA da roba come la celebre “teoria delle finestre rotte”?
Wolf Bukowski: La teoria delle finestre rotte sostiene che il cosiddetto degrado – tipo le scritte sui muri [o una finestra rotta appunto] – produce crimine. Questa teoria – totalmente falsa, come dimostra una pletora di dati – è parte di quell’ideologia securitaria che è la compare naturale del neoliberismo. Come notava infatti il sociologo Loïc Wacquant, al ritirarsi dello stato sociale deve necessariamente corrispondere l’avanzata dello stato penale, perché chi non ha più neppure la parziale possibilità di riscatto data dal welfare deve essere duramente represso affinché la sua disperazione non travolga i benestanti. Ho premesso questo alla mia risposta perché spiega quello che è accaduto: la destra era già per sua natura schierata con la repressione e la sinistra lo diventa quando negli anni Novanta aderisce totalmente al neoliberismo.
Il videogioco di Ivan inizia – ancora prima che si apra il menù – con il testo dell’ordinanza per il decoro emanata da Renzi – come sindaco di Firenze – nel 2009. Non con un’ordinanza “di destra” quindi, ma con un’ordinanza “di sinistra.”
Ivan Preziosi: La scelta dell’ordinanza di Renzi è motivata dal fatto che si tratta di quella più nota, la più citata. Ma il testo della stessa è un piccolo capolavoro di per sé, con tutti quei dettagli come la citazione della postura a “guscio di tartaruga” [dei mendicanti]. Che poi fosse stata emessa da un sindaco esponente di un partito sedicente di sinistra è una cosa che dà ancora di più il polso di quanto certe politiche, sostanzialmente di destra, siano ubique ed egemoni in tutto l’arco politico istituzionale.
È per me questa la cosa più interessante dell’arrivo del decoro in Italia: è connaturato alla destra, ma la sua affermazione arriva quando la “sinistra” accetta il suo linguaggio, accetta che decoro e sicurezza (non più intesa come “sicurezza sociale” cioè welfare) siano temi politici. Ne La buona educazione degli oppressi Wolf scrive per esempio che “il salvinismo [è] un cofferatismo maturo.”
Wolf Bukowski: Sì, Cofferati ha il copyright sull’uso della ruspa contro i soggetti deboli: l’ha fatto nel 2005 contro dei rom che vivevano lungo il fiume Reno a Bologna. Non voglio sottovalutare il ruolo della destra in tutto ciò, ma la destra ha fatto, diciamo, il lavoro che le spetta, cioè la tutela del privilegio di classe e di “razza.” La sinistra neoliberale ha fatto anch’essa il lavoro della destra, e così oggi troviamo normale che un uomo di destra come Minniti o una donna “Law & Order” come Lamorgese siano considerati “alternativi” rispetto a Salvini.
Ivan Preziosi: La storia politica del decoro in Italia inizia con l’adesione completa e senza riserve della sinistra istituzionale all’ideologia neoliberale e con i discorsi securitari legati alla percezione della sicurezza. Tutto ciò però non sorge dal nulla: le televisioni private hanno dato un contributo fondamentale a preparare il terreno su cui si sarebbero innestati i successivi discorsi. Mi riferisco in particolare alle televisioni private berlusconiane e alla loro stagione d’oro negli anni Ottanta, con i loro messaggi basati sul mito del “self-made man,” del sogno americano, dello yuppismo e della competizione sfrenata. Il far proprie certe politiche e retoriche, da parte anche della sinistra istituzionale, si innesta su un generale cambiamento culturale che riguarda tutta l’Italia.
I videogiochi tendono a essere molto “meritoratici,” a premiare la bravura di chi gioca. Hard Times è un po’ diverso: posso sopravvivere, ma il personaggio non può uscire dalla sua condizione di emarginazione. Mi è sembrato un modo per dire che come chi gioca non ha la possibilità di cambiare la condizione del suo personaggio così i senzatetto non hanno la colpa della loro condizione. Mi è sembrato insomma un rifiuto della meritocrazia che – come spiega La buona educazione degli oppressi – “applicat[a] alle classi inferiori […] ricorda innanzitutto che chi è povero lo è perché non ha saputo meritarsi la ricchezza, e dunque che la sua povertà è una sua colpa.”
Ivan Preziosi: In Hard Times non esiste una vera e propria progressione e non esiste un finale, il gioco è un’esperienza basata su un sistema di meccaniche e su un ambiente simulato in cui chi gioca può muoversi come meglio crede, interpretando il gioco e il gameplay in maniera personale. L’unico scopo palese è sopravvivere quanto più a lungo possibile. Ho deliberatamente lasciato fuori dal gioco eventuali possibilità di giungere a trovare un lavoro, una casa, di diventare un membro produttivo della società. Non volevo proporre come auspicabile una via di emancipazione che sia integrata ai valori della società (o qualsiasi altra via), non volevo dire come (o se) tale condizione necessitasse di un percorso di emancipazione. Diciamo che non volevo dare una morale oppure, se preferisci, dire che la condizione che vive chi è rappresentato nel gioco sia una colpa o una “malattia” da curare. Al massimo rappresento come disfunzionale il modo in cui la società si rapporta a queste persone.
Il genere di cui fa parte Hard Times di solito mette chi gioca in situazione estreme ma fantastiche o fantasiose. Invece Hard Times mi mette in una delle nostre città, è come se dicesse a chi cerca nei videogiochi nemici fantastici da sconfiggere “guarda, la tua città per qualcuno è un nemico tipo quelli, eh.”
Ivan Preziosi: Si, una delle idee del gioco era anche quella di rovesciare un altro dei classici stilemi videoludici, i quali tendono spesso a fare due cose: trasferirti in un mondo fantastico e in un personaggio dotato di una forte capacità di azione. In Hard Times avviene un po’ il contrario e, oltretutto, si è completamente passivi: si possono prendere un sacco di botte ma non si può picchiare, si può solo fuggire o nascondersi. L’idea è quella di usare questa differenza per innescare in chi gioca delle riflessioni sulla situazione rappresentata: in Hard Times si è passivi perché quello messo in scena è il conflitto assolutamente asimmetrico tra una persona sola e l’indifferenza (o aperta ostilità) delle istituzioni e della società nel suo insieme.
Un punto de La buona educazione degli oppressi è che siamo tutti potenzialmente vittime del decoro, perché il decoro costruisce le città soprattutto per una specifica categoria di persone: i turisti. E neanche tutti i turisti, perché i turisti poveri, i turisti che mangiano un panino sui gradini, sono “cafoni” e vengono anch’essi considerati parte del degrado.
Wolf Bukowski: Quelle ritratte da Ivan nel gioco sono le vittime che pagano il prezzo più alto: senzatetto, migranti poveri, rom, eccetera. Ma il resto della popolazione, quelli che “fin qui tutto bene,” che bene o male ce la fanno, sono anche loro indirettamente vittime del decoro. Perché il decoro le educa, dice loro che se hanno un momento di debolezza, o subiscono le ingiurie della sorte o un cedimento psichico (chi è davvero sicuro che non gli possa accadere?), finiranno così, e che se finiranno così non ci sarà pietà. Quindi meglio rigare sempre dritto, subire ogni vessazione sul lavoro, a scuola, a casa… mai opporsi. Perché se il tuo progetto di resistenza va male sei fottuto. Il decoro disciplina l’intera società, non solo la sua parte più debole.
Il boom dell’ architettura ostile – come le panchine antibivacco – è stato secondo voi un passo falso da parte delle amministrazioni? Se l’obiettivo del decoro è nascondere, l’architettura ostile secondo voi ha in qualche modo reso così concreto, tangibile questo rifiuto da trasformare l’assenza (degli ultimi) in una presenza (per esempio, della panchina antibivacco)?
Ivan Preziosi: Quello a cui alludi tu è un effetto avverso che è intrinseco a quasi tutte le forme di repressione, che se applicate male o in maniera non commisurata rischiano di avere effetti contrari a quelli auspicati. Ma l’architettura ostile spesso ormai è concepita in forma “mascherata” e viene spacciata, di volta in volta, per design eccentrico od opera d’arte.
Wolf Bukowski: Il progetto di disciplina [di cui parlavo] si serve anche delle architetture ostili. L’architettura ostile è un monumento, nel senso etimologico di qualcosa che ti spinge a ricordare. A ricordare i rapporti di forza, a ricordare come ti devi comportare e come no. Per questo non credo che l’architettura semplicemente ostile sparirà a favore delle architetture ostili più subdole, più “artistiche.” Un po’ per questa funzione “monumentale,” un po’ perché diventeranno sempre di più i comportamenti da impedire, da ostacolare.
Proseguendo in Hard Times , la città diventa in qualche modo un tuo strumento. È sempre un nemico, ma lentamente crei un tuo spazio al suo interno, costruisci strumenti, coltivi negli spazi verdi. Quanto c’è di reale in questo?
Ivan Preziosi: Ovviamente nel realizzare un videogioco, per quanto si vogliano trasmettere determinati messaggi, ci si dovrà sempre confrontare anche con la sua componente ludica, tantopiù se l’intenzione, come è nel mio caso, è quella di creare un qualcosa che riesca a miscelare impegno e intrattenimento. Detto questo, tutto ciò che è presente nel gioco deriva dalla mia esperienza personale: i personaggi sono ispirati a persone che ho davvero incontrato nel corso della mia vita e quasi tutte le cose rappresentate hanno un fondo di verità.
Per esempio nel gioco si possono coltivare piante di vario tipo nelle aiuole floreali lungo i marciapiedi e chi vive a Roma (ma non solo) sa bene quanto facilmente possa accadere di scorgere mini orti o piccole coltivazioni abusive nei posti più impensabili, tipo negli spartitraffico o nei fazzoletti di terra incolta che si stendono ai margini delle zone edificate (spesso tra la spazzatura).
Ma è possibile riprendersi le città? È possibile renderla un nostro strumento e sconfiggere la sua ostilità?
Ivan Preziosi: Credo che i problemi a monte di tutto siano capitalismo (specialmente nella sua variante più aggressiva neoliberista), profitto ed iniquità. Tutto il resto discende da li, e tutte queste politiche alla fine sono sempre volte a salvaguardare lo status quo ed i profitti di chi sfrutta la propria posizione a scapito dei più deboli. Cosa possiamo fare noi? Apparte ciò che già facciamo (chi scrive, chi fa i giochetti, chi i disegnetti…), possiamo ritrovare o ricreare le reti di solidarietà, autogestione ed autorganizzazione che nascono dal basso. Ricreare una socialità diffusa nei quartieri, un dibattito aperto e coraggioso e una certa coscienza di classe. Perché le politiche discriminatorie e divisive come quelle di cui abbiamo parlato si radicano e prosperano nelle crepe esistenti in tali spazi lasciati vuoti e non presidiati.
Wolf Bukowski: Il decoro deve essere combattuto su due piani. Il primo è quello più diretto: valorizzando le esperienze indecorose, la spontaneità sociale, e facendo uso di spirito pratico e artigianale – artigianale anche nel senso di tagliare e segare quando c’è la possibilità di farlo, per capirsi. Il secondo è quello culturale – e qui il gioco di Ivan è un esempio – e continuando a spiegare che il decoro non è il frutto di una inspiegabile malvagità dei sindaci, ma un pezzo organico del progetto neoliberale. Mettere in cattiva luce il decoro è un modo per puntare il dito contro il neoliberismo, e per questo è irrinunciabile farlo.