Raccontarsi per salvarsi tutti insieme, dal basso

Pubblichiamo la traduzione dell'intervista di Neus Molina ad Alberto Prunetti, uscita in Spagna su El Salto, a proposito della narrativa working class. A breve Alberto sbarcherà sulla penisola iberica con la doppia traduzione di Amianto in catalano e castigliano.
Nella tua trilogia working class racconti la storia di Renato, tuo padre, ma più che una biografia è un’epopea, “un’epopea stracciona” della classe operaia dei nostri giorni. Perché hai deciso di mettere al centro del racconto la tua famiglia?
Perché volevo partire da una storia concreta. Non sono un sociologo, non ho i dati a disposizione. Per raccontare lo sfruttamento, dovevo prendere la persona più sfruttata, che più ingiustizie aveva patito sul lavoro, che conoscevo meglio, e quella persona era mio padre Renato, che aveva iniziato a lavorare a quattordici anni e dopo una vita di saldature tra acciaierie e raffinerie era morto a cinquantanove anni per un tumore professionale. Nessuna storia meglio della sua ai miei occhi racconta la voracità del capitalismo, affamato di lavoro umano come una fogna. Al tempo stesso, non volevo scrivere una storia patetica, vittimaria. La sua vita era stata una vita piena di orgoglio operaio e di umorismo popolare. Quindi l’ho raccontata in chiave epica. Ma è un’epica stracciona, picaresca, non un’epica aristocratica.
Nelle prime pagine di Amianto. Una storia operaia dici che l’amianto è un killer silenzioso. Che significa?
Che ammazza lentamente, senza che la vittima se ne renda conto. Ci mette venti, trent’anni per uccidere. In genere le fibre si infilano nei polmoni dei lavoratori a trent’anni e li uccidono quando ne hanno sessanta. A quel punto è abbastanza difficile accertare le responsabilità. Faccio un esempio concreto. Di recente un sostenitore di un progetto di sviluppo dell’alta velocità ferroviaria italiana, in una telefonata privata, a chi gli faceva presente che la montagna da forare era piena di amianto, ha risposto sostanzialmente che non era un problema, che tanto la gente si ammala tra trent’anni…
Amianto abbandona i postulati borghesi del romanzo postindustriale italiano e si allaccia alla letteratura working class inglese. Dove sta la differenza?
L’idea di base è che il romanzo è un genere letterario che è servito a raccontare l’immaginario della borghesia: dalla sua genesi alla sua crisi novecentesca. Per raccontare la classe lavoratrice, sarebbe stato un errore mettere contenuti operai in una forma borghese. Dovevo utilizzare le forme narrative consolidate per spingerle in direzione centrifuga. Per questo in Amianto ibrido, incrocio diverse forme espressive: l’inchiesta, il memoir, la narrativa, il saggio. La narrativa working class inglese in realtà emerge di più nel secondo libro della mia trilogia working class, ossia 108 metri. The new working class hero. Qui ho cercato di fare i conti col romanzo working class inglese, però prendendo solo quel che mi convinceva di più da questo filone narrativo.
Como parlare della clase operaia quando sembra che questa stia scomparendo? Tutti vogliono essere “classe media” e intanto il lavoratore atomizzato, solo, migrante fatica a riconoscersi come classe operaia. Non c’è orgoglio di classe perché non c’è lotta collettiva. Siamo di fronte a un caso di vergogna di classe?
In realtà quella della classe operaia che scompare è un refrain, un mantra ideologico che recitano le classi egemoni. Tra l’altro, ogni volta che c’è da ripulirsi la coscienza (tipo quando vincono le elezioni le destre) ecco che fanno riemergere la classe operaia, però solo come capro espiatorio: se vincono le destre è perché i poveri le votano, dicono. Altro punto: in Italia ogni giorno muoiono 3-4 operai sul lavoro. Insomma, gli operai “non ci sono più” ma continuano ogni giorno a morire: è contraddittorio. Diciamo che la classe lavoratrice si sta trasformando: ci sono meno tute blu e più donne, nella nuova classe lavoratrice. Ci sono più migranti. E si lavora più nei servizi e nella ristorazione o nella logistica che nella meccanica. Però sì, manca la lotta collettiva, manca l’orgoglio, mancano strutture sindacali e politiche che rappresentino questa classe. Manca anche un immaginario. Quello che provo a fare io con i libri è mettere assieme pezzi di questo immaginario, ma senza le lotte sociali è poca cosa. Eppure il conflitto esiste sul mondo del lavoro ma spesso è silenziato o frammentato. Non so se è vergogna, certo non c’è il senso di essere il sale della terra come c’era negli anni Sessanta e Settanta.
Tony Blair ha dichiarato «Siamo tutti classe media». La demonizzazione della classe operaia comincia col Thatcherismo. Owen Jones scrive nel suo libro Chavs «Il nuovo britannico creato dal thatcherismo era un individuo di classe media, proprietario di casa, che si occupava solo di sé stesso, della sua famiglia e di nient’altro. La sua aspirazione era quella di desiderare un’auto o una casa più grande. […] Le comunità di classe operaia più devastate dal thatcherismo divennero quelle più disprezzate. Erano considerate, scarti, resti di un mondo antico calpestato dal progresso inesorabile della storia. Per loro non c’era compassione: anzi, meritavano di essere ridicolizzate e vilipese». Perché si dà la colpa di tutti i mali alla classe operaia (dalla Brexit alle elezioni di Trump, ai voti per Vox in Spagna…)?
La lotta di classe continua, ma oggi la fanno soprattutto i padroni dall’alto. E dopo aver sconfitto i lavoratori, li umiliano accusandoli di essere la ragione di quel che non va del sistema. Per questo io dico che la narrativa working class è importante. Perché se non ci raccontiamo noi, da soli, ci racconteranno loro. E lo faranno in maniera caricaturale, parziale, depistando le nostre ragioni, pervertendole ai loro interessi. In questa narrativa di demonizzazione, la classe operaia – come la raccontano loro – è un bersaglio di paglia, costruito ad arte per glorificare la classe media.
Tuttavia l’estetica proletaria si è introdotta in ogni strato dello stile mainstream. Si tratta di una forma di empowerment operaio o del capitalismo che commercializza l’estetica del povero annullando la sua capacità di incidere politicamente? Perché per la borghesia il lumpen risulta sexy?
Per una risposta precisa, qui ci vorrebbe un esperto di cultural studies, e non è il mio campo. Se penso al caso inglese, spesso la classe operaia è stata capace di esprimere delle tendenze culturali (penso ai mod, al punk, alla moda, a certi fenomeni legati al calcio inglese). Quel che è successo in genere è che si è cercato di usare questi simboli depotenziandoli, trasformandoli in feticci e poi in gusci vuoti. Il risultato è che il capitale è riuscito a estrarre ricchezza anche da queste tendenze culturali. Ma non sorprende: il capitalismo è una macchina per estrarre ricchezza, riesce a estrarla anche dalla spazzatura e dalla merda. Vampirizza ogni energia. Quanto al lumpen, è per la borghesia più rassicurante del vecchio operaio classico, come il minatore inglese del nord o il metalmeccanico italiano degli anni Sessanta. In certo modo la borghesia dice al lumpen: prova a essere come noi. E poi gli ricorda: ma non sarai mai come noi. Perché? Perché ti manca il buon gusto, le buone maniere (la distinzione, direbbe Bourdieu). E soprattutto i soldi. A ogni modo, il punto non è quello di estrarre un prolet da un quartiere sfigato per farne una success story che conferma il sistema, con tutte le sue disuguglianze. Quello è un caso di cherry picking: prendo una ciliegia buona, e le altre le lascio a marcire nel cesto. Il punto politico è chiedere che le comunità, i quartieri popolari, le scuole dei figli dei lavoratori, possano uscire dalla subalternità. Salvarsi non da soli, ma tutti assieme. Il sistema non ci riesce, allora “salvano” uno e ne fanno un caso di costume, un esempio naturale di talento, un artista di punta. Ma poi se lo dimenticano presto. Il punto è salvarsi tutti assieme, ripeto, e dal basso.
La nuova classe operaia dell’era postindustriale si sposta nei paesi del Terzo mondo. Esiste un dialogo tra la letteratura working class europea dei nostri giorni e la letteratura di fabbrica di paesi come la Cina e l’India?
Per quel che ne so, ancora purtroppo no. Però quel che succede in Asia è interessante. Di fatto la produzione si sta spostando in Asia, mentre da noi gli operai della logistica movimentano le merci prodotte in quel continente. In Cina mi ha colpito molto il memoir di una donna lavoratrice migrante occupata nel settore della cura e le poesie dei lavoratori che assemblano i telefoni cellulari. Queste poesie, scritte sugli smartphone nei momenti in cui gli operai si allontanano dalla catena di produzione, mi ricordano molto i poeti operai italiani degli anni Settanta-Ottanta. Solo che cambia la tecnologia. I poeti operai italiani usavano la carta e il ciclostile e diffondevano le poesie in mensa o ai cancelli; i cinesi usano i telefoni cellulari e diffondono le loro poesie operaie sul web.
Chi sono i membri della working class dell’era postindustriale? Che ruolo giocano i freelance e i lavoratori cognitivi precari?
Sicuramente la classe lavoratrice, come dicevo prima, si sta trasformando. È sempre meno una classe lavoratrice di uomini bianchi e sempre più una classe lavoratrice composta da migranti e donne. Questo non significa che dobbiamo abbandonare a sé stessa (o alla destra) la vecchia classe lavoratrice bianca. Dobbiamo costruire ponti e solidarietà. Ai nostri giorni nel lavoro sfruttato c’è anche molto lavoro cognitivo. Ci sono i working poor con partita iva che guadagnano appena mille euro al mese. Ci sono i figli proletarizzati della classe media più poveri dei loro genitori. Costretti a lavorare tutti i giorni, a non distinguere tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra tempi di lavoro e tempi di vita. Questa nuova composizione di classe va studiata e bisogna offrire risposte. Altrimenti avremmo ancora risentimento, che non è un elemento che promuove politiche di trasformazione sociale egalitarie. Dobbiamo tendere ponti tra il lavoro cognitivo impoverito e quello manuale, tra lavoratori e lavoratrici, tra lavoratori migranti e vecchi lavoratori nati da generazioni di sfruttati. Questo è un lavoro fondamentale: unire quel che il capitale divide, dividere quel che il capitale fittiziamente unisce.
La letteratura e l’immaginario della working class inglese sono molto maschili: il pub, il calcio, ecc. Nella nuova letteratura working class come introdure una prospettiva di genere?
È un tema fondamentale. Io stesso sono stanco di certe storie piene di testosterone (anche se poi riconosco che in parte hanno una loro forza). Va detto che ci sono anche giovani autori e autrici in lingua inglese che stanno introducendo tematiche di genere nella narrativa working class: penso ad Anthony Cartwright ma soprattutto alla scrittrice Kit De Waal, donna, scrittrice irlandese, black e working class. Ha curato un’antologia, Common people, piena di voci working class femminile, direi spesso con un’ottica intersezionale.
Anche la classe operaia femminile italiana si sta “femminilizzando”?
Certo, la femminilizzazione del lavoro operaio è sempre più diffusa. Aumenta il peso del lavoro femminile e anche gli uomini tendono a lavorare sempre di più in settori come i lavori di cura, di pulizia o di ristorazione che un tempo erano considerati esclusivamente femminili. Si fa anche molto lavoro domestico, che un tempo era solo femminile e oggi lo fanno anche gli uomini che lavorano nella cultura: io ad esempio adesso lavoro chiuso in casa, come freelance dell’industria editoriale, e vedo la difficoltà della sovrapposizione tra tempi di vita e di lavoro, tra lavoro produttivo e riproduttivo. Quella della sovrapposizione tra lavoro produttivo e riproduttivo è un elemento tipico del lavoro femminilizzato. Le donne lavorano due volte, sono sfruttate due volte. Le donne working class sono due volte working class. Bisogna che aumenti la consapevolezza su su questi ambiti. Nella collana che curo per l’editore italiano Alegre, che si chiama appunto working class, è appena uscita un’opera di Simona Baldanzi che pone l’accento sul lavoro femminile. Si intitola Figlia di una vestaglia blu.
Qual è il filo rosso che collega la classe operaia dei lavoratori di fabbrica con la classe lavoratrice dei nostri giorni? Come creare nuovi immaginari a partire dalla letteratura?
Credo che il filo rosso sia il conflitto sociale e la consapevolezza di essere sfruttati. È difficile, perché i lavoratori del passato avevano lo stesso contratto e oggi il capitale frammenta i lavoratori mettendoli gli uni contro gli altri, con contratti differenti. Serve un nuovo protagonismo. Le lotte sociali alimentano la letteratura, la letteratura crea l’immaginario ma deve alimentarsi di lotte sociali. E l’immaginario può sostenere le lotte. È un ciclo virtuoso. Ma il capitalismo cerca di separare: usa il razzismo per evitare che si formi una nuova consapevolezza sociale di solidarietà e diritti per tutti. Favorisce i lavoratori maschi per evitare che le donne diventino sempre più conflittuali, uscendo dal lavoro domestico. Ripeto: bisogna unire quel che il capitale divide. I lavoratori di Amazon, le commesse di Zara e i freelance dell’industria editoriale devono sentirsi dallo stesso lato della barricata. Dalla parte di chi è sfruttato, contro chi sfrutta.
Come affrontare le problematiche ecologiste quando bisogna mangiare? A un certo punto nel tuo libro parli di “pane avvelenato”. Un altro esempio è quello degli ecologisti che si trovano di fronte gli operai rispetto al tema della chiusura delle fabbriche. L’ecologia è borghese?
Serve un ecologismo working class, un movimento per la giustizia ambientale che tenga assieme le ragioni dell’ambiente e dei lavoratori. Se le industrie inquinano, i primi ad ammalarsi sono i lavoratori. Spesso i figli dei lavoratori: è il caso di Taranto, nell’Italia del sud, dove c’è la più grande acciaieria d’Europa: una zona con livelli di inquinamento inaccettabili in cui i bambini nascono già ammalati di tumore. La scelta del pane avvelenato non è una scelta; essere costretti a scegliere tra lavoro e ambiente non è una scelta: chi è costretto a lavorare ammalandosi o distruggendo l’ambiente, non ha alternative. Dobbiamo pretendere lavori puliti e sicuri, dobbiamo costringere i padroni a bonificare i posti di lavoro malsani. L’ecologismo borghese non credo abbia un grosso impatto: al limite sposta la spazzatura. Guardo con interesse la nuova ondata di ambientalismo che arriva dall’Europa del nord, però bisogna che i lavoratori siano inclusi nei processi per la giustizia ecologica. Prendiamo il caso di Casale Monferrato: alla fine, sono stati proprio i lavoratori a iniziare la lotta per chiudere la fabbrica. Perché erano stanchi di leggere i nomi dei loro compagni morti sugli avvisi mortuari, sui muri della fabbrica. Ma alla base c’è una questione di rapporti di forza. Una classe lavoratrice debole ha difficoltà a lottare per sicurezza e ambiente. L’ecologia del capitale è greenwashing, l’ecologia operaia è giustizia ambientale.