Descrizione
Come in un tempo sospeso, in questi ultimi quindici anni siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi climatica, da una pandemia a una guerra, senza soluzione di continuità. Ciascuna di queste crisi viene raccontata come priva di contesto, come episodio a sé stante, senza antecedenti né causalità. Sembra di vivere dentro un eterno presente fatto di emergenze a cui rispondere, con l’angosciante sensazione che quella attuale non sarà l’ultima e che sembra essersi innescato un circolo vizioso, senza via d’uscita.
È giunto il momento di guardare la luna oltre il dito e ricostruire una chiave di lettura delle crisi multiple del capitalismo: se lette come insieme concatenato rivelano che la sua ferocia è dovuta alla propria intrinseca debolezza. Occorre superare il modello antropologico di riferimento dell’individuo razionale e autonomo sul quale si sono basate le riflessioni sulla società del contrattualismo di Locke, Hobbes e Rousseau per approdare a un nuovo modello che, partendo dalla relazionalità della cura, faccia emergere le diversità e un nuovo assetto della democrazia basato sull’inclusione.
Dopo decenni di indiscutibile ideologia del profitto, il paradigma della cura può diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra e perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una diversa società, che sia ecosocialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e disuguale.
Il capitalismo produce incuria. Affidando le leve della società alle logiche del mercato e prevedendo relazioni unicamente intermediate dalla compravendita di beni e servizi costringe l’esistenza delle persone dentro la dimensione della solitudine competitiva. Il capitalismo produce noncuranza. Se la vita delle persone è ridotta a un’angosciosa gara per primeggiare, o quantomeno per evitare di soccombere, il destino dell’altra e dell’altro non muove alcuna empatia e l’io diviene il centro del mondo.