Descrizione
Dalla fabbrica alla galera, andata e ritorno. Due luoghi che si somigliano, un percorso tipico di tante scritture working class. In fondo i proletari un tempo potevano permettersi di scrivere solo se andavano in prigione: il tempo morto del lavoro poteva allora convertirsi in scrittura. Valerio Monteventi racconta in autofiction un percorso carico di consapevolezza politica: figlio di operai vicini al Partito comunista italiano, cresciuto col mito della classe operaia, entra da studente universitario in fabbrica. Critica il lavoro salariato dall’interno smontando il mito del “chi non lavora non mangia” coltivato dalla generazione dei padri.
La repressione dei primi anni Ottanta lo porta, con una falsa accusa, nelle patrie galere. Ne esce con un’assoluzione e si lancia nella politica e nel lavoro sociale, spingendo a testa bassa come un giocatore di rugby. Fino a quando il suo nuovo lavoro lo riporta dentro la prigione, stavolta come tutor di un gruppo di giovani detenuti che imparano da vecchi maestri di meccanica l’arte del tornio e della fresa. Vecchi con le mani d’oro, capaci di fare gli scarpini di metallo a un moscerino. Ad ascoltarli lima alla mano giovani proletari, spesso immigrati, costretti a imparare un mestiere e rapidi a percorrere ogni strada possibile per la libertà.
La ruggine da un lato e il disco tagliente della mola dall’altro: quando si incontrano sul testo, liberano scintille.
«Nel Sessantotto si parlò, tra le tante cose che andavano rivoluzionate, anche di rivoluzione dei rapporti di coppia. Non ci fu nessuno, però, che si azzardò a rivoluzionare la coppia conica e il suo sistema di trasmissione di motricità che, messo a punto all’inizio, a differenza dell’amore, è molto meno vulnerabile».