Black marxism – Francesco Festa su Carmilla
di Francesco Festa – Carmilla
Quando il 20 gennaio 2009 varcò la porta della Casa Bianca di Washington, Barack Obama era il primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti d’America. Dati i due mandati consecutivi, fino al 2017 visse in quella casa. Una sineddoche epifenomenica: un nero che s’insedia a capo del paese fra i più razzisti della storia contemporanea. Al mondo intero parve che quell’elezione ponesse fine alla febbre del razzismo, inaugurando un’era post-razziale.
Il 9 agosto 2014, nel Missouri, un poliziotto, Darren Wilson, sparò e uccise durante un controllo il diciottenne afroamericano Michael Brown. Per settimane si susseguirono rivolte e proclami di coprifuoco. Ferguson, Los Angeles, New York, Houston, e altre città vennero sconvolte dalle proteste a seguito della sentenza di assoluzione del poliziotto emessa dal Gran Giurì e dal pubblico ministero della contea di St. Luis, Robert P. McCulloch – un democratico eletto ininterrottamente alla carica dal 1991.
Dopo quasi un decennio di presidenza di Obama, al soglio di quella casa salì Donald Trump. Il presidente più sfacciatamente razzista e suprematista della storia statunitense.
Insomma, la questione razziale non sembra proprio esser stata superata. Anzi, oltre la siepe di quella casa vi è un’escrescenza che cresce sempre più, assumendo forme inquietanti – i confini e i margini delle società democratiche che spingono verso il centro della realtà sociale.
Conviene analizzare la questione stessa in altro modo, ossia come il razzismo e la supremazia bianca siano elementi strutturali della società statunitense, per dirla con Angela Davis. Dunque ripercorrerne la storia, interpellando tanto i livelli strutturali quanto i livelli sovrastrutturali, adoperando il metodo della genealogia per andare fino in fondo non tanto al “problema” – ché altrimenti avrebbe una sua soluzione – quanto alla sua esistenza che è consustanziale al sistema-mondo capitalista.
Ed è quanto realizzato da Cedric Robinson in Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera. In un’opera mastodontica, uscita nel 1983 e tradotta per la prima volta dalle Edizione Alegre, con un’ampia e organica prefazione e postfazione di Miguel Mellino – a entrambi va riconosciuta profonda gratitudine per l’impegno inconsueto nel dare alle stampe un opus magnum. La voluminosità del testo non deve trarre in inganno: Robinson accompagna il lettore negli angoli remoti, archeologici, della questione razziale, con un linguaggio lineare e appassionato, senza trascurare gli aspetti più articolati, capovolgendo alcune teorie e punti di vista storicamente assodati, del nostro modo di pensare. Egli scava così in profondità nell’archivio dei nostri saperi che al termine della lunga lettura ci si sente di non avere più le consapevolezze coriacee da cui si è partiti. E, per certi versi, si sente che qualcosa è cambiato, dall’angolo prospettico in cui si osserva la realtà. Un merito indubbio di Black marxism è quello di rivoluzionare le basi teoriche di colui che lo legge – e di riflesso del sapere occidentale.
Osserva Mellino: “Si resta subito colpiti, anche spaesati, dalla dimensione ‘rizomatica’ dello scritto: la cristallizzazione dei suoi oggetti e discorsi – il ‘marxismo nero’, l‘’emergere della nozione di civiltà europea come strumento ideologico di dominio’, il ‘razzialismo’, il ‘capitalismo razziale’, la ‘tradizione radicale nera’ – avviene non solo ad un’imponente molteplicità di livelli (storici, disciplinari, tematici), ma soprattutto stabilendo, tra i fenomeni esaminati, connessioni tanto stimolanti quanto piuttosto impreviste.” (p. 10)
In realtà Black marxism non è catalogabile o incasellabile all’interno di una disciplina. È un libro eccentrico, con una prospettiva intensamente transdisciplinare; unisce la teoria politica, la storia, la sociologia, la filosofia, l’analisi culturale, la biografia e tanto altro, arrivando a riscrive la storia dell’ascesa dell’Occidente e del modo di produzione capitalistico, dall’antica Grecia fino alla metà del Ventesimo secolo. E ripercorre le radici del pensiero radicale nero tramite un’epistemologia condivisa dalla diaspora africana, muovendo al contempo una critica stringente alla tradizione marxista occidentale: mostrando i limiti del materialismo storico, da una parte, nella genesi del sistema capitalistico – in un dialogo intenso con Immanuel Wallerstein – e, dall’altra, nel comprendere l’esperienza nera, rivelando come il razzismo occidentale affondi le radici nella civiltà europea ben prima dell’alba del capitalismo.
L’ipotesi genealogica di Robinson è che il capitalismo sia sempre stato un sistema di dominio razziale fin dal suo emergere, fra il 3-400 d. C., cresciuto all’interno dell’Europa durante il Medioevo. Scrive nelle prime pagine: “le basi sociali della civiltà europea furono poste da coloro che i Romani chiamavano barbari” (p. 55) – evidente qui, e non solo, è il debito all’Orientalismo di Edward Said. Il capitalismo razziale, dunque, nasce incorporando via via una certa ideologia e un certo ordinamento razziale che fa capo ad una mitologia del sangue, del primato della cosiddetta “civiltà occidentale”, del privilegio di alcune stirpi razziali in grado di governare su altre. Col tempo questo sistema si va strutturando come una “macchina assiomatica” – per dirla con Deleuze e Guattari – tanto quanto si va organizzando il modo di produzione del capitalismo nascente, e successivamente durante l’espansione coloniale, con la schiavitù, diventando infine un sistema globale di dominio.
L’elemento interessante nella transizione dal modo di produzione medievale a quello capitalistico è che il concetto di razza non nasce denotando una precisa linea del colore. Ciò che sostiene Robinson è che le prime popolazioni assoggettate non siano state nere – o non soltanto nere. I primi popoli assoggettati a questo dispositivo razziale di dominio erano i poveri europei e soprattutto le donne. In altri termini, la schiavitù medievale in Europa era rappresentata per lo più da donne, slavi, irlandesi e da popoli del Sud Europa. Questo è ciò che sostanzia il razzialismo, ossia l’intreccio storico tra razza, razzismo e capitalismo, il quale ha agito come dispositivo generando l’idea di razza fra il Sei-Settecento. Dispositivo che, a partire dalla schiavitù si condensa in termini fenotipici producendo il concetto di “supremazia bianca”. Il razzialismo mette in chiaro quali siano i rapporti di forza fra i gruppi sociali e i modi in cui questo si trasforma, poi, in una supremazia anche di tipo razziale.
Nella lettura di questa genealogia storica si colgono le critiche rigorose di Robinson a Marx ed Engels. Ne segnaliamo alcune. Innanzitutto, l’avvento del sistema di accumulazione capitalistico non è l’esito di rotture o interruzione con la produzione feudale, attraverso l’emergere della società borghese, bensì è un’evoluzione interna del sistema medioevale. Mentre, il dominio coloniale e il dominio schiavistico non sono modi di produzione precapitalistici, ma come visto fin qui, modi propri del capitalismo razziale, a seconda dei rapporti di produzione. Così come la logica di accumulazione capitalistica non produce un’omologazione dei rapporti di produzione e della forza lavoro globale, bensì – come ricorda Mellino – “nella sua espansione, riproduzione e spazializzazione planetaria come sistema di dominio”, si articola “a partire da una tensione dialettica fra omologazione-universalizzazione e differenziazione-gerarchizzazione.” (p. 729)
Particolare attenzione va prestato ad alcune interessanti considerazioni di Robinson sul “carattere non-oggettivo dello sviluppo capitalistico”, o detto altrimenti sulla “concezione culturale gerarchica dell’umanità”, su cui si è formato il capitale, dunque, non soltanto sulla dimensione economica. La critica al marxismo qui si concentra sul rapporto struttura/sovrastruttura o adottando un concetto althusseriano ripreso da Stuart Hall, sui “differenti livelli di articolazione” – istanze economiche, politiche e ideologiche – del rapporto sociale di produzione, che si “surdeterminano reciprocamente”; ciò che Gramsci ha definito come “teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” ossia, la funzione strutturante delle “istanze politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle “tradizioni” e della tradizione nazionale”.
Effettivamente si percepiscono dei rimandi a Gramsci; anche se nella bibliografia di Black marxism non appaiono è effettiva la vicinanza delle tesi gramsciane con quelle di Robinson, ad esempio, nell’attenzione di entrambi per le tradizioni popolari delle culture subalterne.
Tornando da dove siamo partiti, proviamo a spiegare attraverso Black marxism la ragione per cui Obama, così come tantissimi intellettuali che ricoprono ruoli rilevanti nelle istituzioni statunitensi – e non solo – agiscano come maschere bianche su pelli nere, parafrasando un efficace titolo di Frantz Fanon; oppure, adoperando termini robinsoniani, agiscano come “rinnegati dell’intellighenzia nera”.
“Nei territori anglofoni, francofoni e latini di entrambi gli emisferi – scrive Robinson – le ‘classi medie’ nere si sarebbero via via caratterizzate per cultura e linguaggio, vale a dire per la loro capacità di assorbire le culture delle classi dominanti e di saper leggere e parlare le lingue europee. Sradicamento, alienazione sociale e culturale, divennero i parametri per giudicare il loro grado di civiltà, lealtà e utilità. Ovviamente sapevano bene, come le masse, che questa loro patina non era che l’artificio storico per la strutturazione stessa di caste, classi, razze, autorità, che questa loro specifica adattabilità era il marchio del privilegio e dello status.” (p. 423)
Dalle contraddizioni del colonialismo è sorta dunque una borghesia nativa che ha funto da strumento di governo coloniale, come complice del sistema coloniale; nondimeno essa ha subito il razzismo degli europei, per un verso, e per un altro un senso di estraniamento dalle culture native. Queste contraddizioni hanno provocato in alcuni individui, istruiti ai valori occidentali, una sorta di forclusione delle proprie origini, che li ha portati ad abbracciare completamente la società dominante; in altri, invece, un rifiuto e una ribellione, dalla quale è nata l’intellighenzia radicale nera. Che è emersa a cavallo dell’Otto e Novecento e fra i due conflitti mondiali, ossia nel momento in cui ha preso coscienza della fragilità della civiltà occidentale, con le crisi economico-sociale e l’ascesa del nazi-fascismo.
Robinson esamina la vita e le opere di W.E.B. Du Bois, C.L.R. James e Richard Wright, spingendosi ben oltre la biografia e l’analisi critica da loro prodotta. Accompagnandoci in un viaggio attraverso due secoli di storia degli Stati Uniti e della diaspora africana, Robinson ripercorre i processi rivoluzionari emancipativi che catturarono l’attenzione di questi tre intellettuali. Col tempo, Du Bois, James e Wright rividero le loro posizioni sul marxismo occidentale, oppure lo abbandonarono e, in misure diverse, abbracciarono il radicalismo nero. La maniera in cui arrivarono alla tradizione radicale nera fu più un atto di riconoscimento che un’invenzione; non crearono la teoria del radicalismo nero ma piuttosto, tramite il loro lavoro e il loro studio, la ritrovarono nei movimenti di massa dei neri.
Fin qui si è cercato di restituire la ricchezza di un libro fondamentale per il pensiero radicale internazionale. Black marxism squaderna delle questioni essenziali dei movimenti di lotta. È un libro che andrebbe letto e riletto per fissare nodi che, laddove sciolti, potrebbero tornare molto utili alla lotta di classe, all’opposizione sociale e alla costruzione dell’alternativa. Ne fisso, in ultimo, soltanto due. Il primo è quello relativo alle divisioni, alle contraddizioni e alle opposizioni dentro la composizione delle classi lavoratrici su cui il capitalismo razziale agisce disciplinando i distinguo oppure creandone di nuovi, il che permette il trionfo in continuo mutamento del dominio capitalistico e, di contro, il fallimento della trasformazione del proletariato in classe universale; se non si prendono in seria considerazione i processi di differenziazione e le identità molteplici all’interno della composizione di classe, come intersezione delle stesse, queste differenze si tradurranno sempre in divisioni e gerarchie. E il secondo, utilizzando sempre la cornice dell’intersezione, riguarda la lotta contro il razzialismo e per la giustizia sociale che è la stessa lotta contro l’apartheid e per la giustizia in Palestina, così come per la giustizia sociale, la libertà e l’autodeterminazione dei curdi del Rojava. Queste e molte altre lotte e resistenze – micro e macro – contro comportamenti inferiorizzanti, pratiche disumanizzanti e politiche discriminatorie, hanno oggi lo stesso valore e, anzi, una forza maggiore di quella condotta contro l’apartheid che, paradigmaticamente, ha ridisegnato il Sud Africa.